Contenuto sponsorizzato? Un problema di etica

2 Ottobre 2013 • Etica e Qualità • by

Un “caso” è scoppiato il 14 gennaio scorso, quando la storica rivista statunitense The Atlantic ha pubblicato sul suo sito un articolo dal titolo “David Miscavige Leads Scientology to Milestone Year” sulle attività della setta religiosa fondata da Ron Hubbard, evidenziando meriti e capacità del suo leader, David Miscavige, in una forma che è stata definita da più parti alla pari della propaganda Nordcoreana. L’articolo, sia pur etichettato come “Sponsor Content”, veniva pubblicato alla stregua degli articoli redazionali, dando luogo ad una lunga serie di commenti dei lettori che mostravano un notevole imbarazzo e, soprattutto, di non aver ben chiaro che quello fosse un messaggio sponsorizzato, scritto dallo staff di comunicazione di Scientology. Dopo poche ore l’articolo è stato rimosso dalla testata  che ha poi pubblicato un comunicato di scuse. Nel testo, The Atlantic non dava spazio a equivoci:  “Abbiamo fatto un casino. E non avrebbe dovuto essere stata un ondata di “costruttivo criticismo” – ma lo è stata – ad avvertirci che avevamo fatto un errore, probabilmente molti errori”. Contemporaneamente veniva sospesa l’intera campagna di advertising di Scientology.  Ma la frittata era fatta: con oltre 3500 condivisioni tra Twitter e Facebook, l’articolo aveva già raggiunto centinaia di migliaia di lettori minando, in maniera consistente, la credibilità della storica testata di Boston.

State giocando con il contratto che avete con i vostri lettori” ha invece tuonato pochi giorni fa Joe McCambley, intervistato in un articolo di David Carr sul New York Times, “come faccio a sapere chi ha fatto il contenuto che sto leggendo e che valore informativo ha?“. McCambley, che in un ormai lontano 1994 contribuì alla creazione del primo banner pubblicitario online, continua: “comprendo perfettamente il valore del native advertising ma vi sono una quantità di editori che consentono ai brand e alle agenzie di pubblicità di accedere direttamente alle proprie piattaforme di pubblicazione dei contenuti e di pubblicarli direttamente. Io credo che sia un enorme errore”. Eppure sono proprio la storia di McCambley e la sua conoscenza del “prodotto” e del mercato a dare autorevolezza alle sue parole, tanto che David Carr afferma: “Ha ragione. Gli editori possono incrementare le entrate attraverso l’innovazione del formato pubblicitario, ma la confusione che si genera spesso diminuisce la credibilità della pubblicazione”. Sono ormai tante, infatti, le pubblicazioni online che creano mix di contenuti redazionali e sponsorizzati.

Forbes, ad esempio, si è dotato di una piattaforma integrata, Brandvoice, che consente alle aziende di scrivere contenuti sponsorizzati che interagiscono direttamente con il pubblico della testata. La piattaforma consente anche differenti tipi di pubblicazione per le aziende, in forma di pagine, video o gallerie fotografiche. La percezione di trovarsi in un contenuto creato da un azienda è però abbastanza labile e principalmente definita da un occhiello che recita: “Forbes​BrandVoice Connecting marketers to the Forbes audience. What is this?”.

L’Huffington Post,invece, ha un’intera sezione per i contenuti sponsorizzati, nella quale, piuttosto che creare pezzi per le aziende, la testata raccoglie articoli connessi a tematiche vicine a uno specifico brand e li presenta in un ambiente dedicato a quel marchio, con ampi messaggi pubblicitari (qui, l’esempio della pagina dedicata a Cisco).

BuzzFeed, infine, può essere descritto come “il luogo” di un nuovo modo di fare informazione, fatto di innovazione tecnologica e nuove strutture tematiche: la home page del portale, ad esempio, è senza fine e consente uno scorrimento senza limiti; il sito propone numerosi listicle, articoli in forma di elenchi tematici sul modello“10 cose che avreste voluto sapere su…” cui BuzzFeed ricorre spesso anche per campagne di native advertising, come nel caso recente per Mini. Secondo Jeff Greenspan e Mike Lacher, che analizzano proprio quanto fatto dalla testata con la casa automobilistica, “è più efficace creare un contenuto editoriale sponsorizzato che avere il nome del marchio nel titolo”. La problematica più importante che si pone con il native advertising, in un certo senso, ne costituisce anche la sua forza economica: la possibilità di far scorrere un contenuto sponsorizzato all’interno del flusso editoriale, senza l’invadenza e le conseguenti resistenze psicologiche tipiche dei banner pubblicitari. Il problema è fondamentalmente deontologico, di correttezza e trasparenza dell’informazione: sul rapporto con il lettore sono infatti costruite l’identità e la credibilità stessa di un giornale, che non sono solo “valori” etici o deontologici ma anche la base di un modello economico vincente. Se nella maggior parte dei paesi occidentali il controllo e la gestione della corretta informazione sono affidate a sistemi di autoregolamentazione interna, codici etici o ombudsman, in Italia a sorvegliare su tali questioni è l’Ordine dei giornalisti, una struttura consiliare, istituita da una legge dello stato.

La normativa in Italia:
In italia, le leggi dello Stato, istitutive della professione giornalistica, non prevedono esplicitamente riferimenti a questioni relative alla non chiara diffusione dei contenuti sponsorizzati, della pubblicità occulta o di problematiche simili, questioni che sono demandate a specifici codici deontologici, emanati nel corso degli ultimi 25 anni. In generale nelle professioni ordinistiche, vi è stato un proliferare di codici deontologici e di autodisciplina. Questo fenomeno ha posto una serie di questioni relative al riconoscimento del valore giuridico di tali testi. Come si legge in un articolo pubblicato dalla rivista elettronica di diritto pubblico Amministrazione in Cammino, diretta da Giuseppe di Gaspare, docente di Diritto dell’Economia presso a Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli, “…il problema della natura giuridica delle norme deontologiche è tuttora ampiamente dibattuto, contrapponendosi da un lato una antica tesi dottrinale secondo cui esse costituiscono “precetti extragiuridici” e, dall’altro, l’orientamento dottrinale – supportato peraltro dalla più recente giurisprudenza di legittimità – secondo cui è possibile considerare come giuridiche le norme deontologiche in ragione della loro funzione integrativa dei precetti legislativi ovvero, secondo un’impostazione non dissimile, in ragione del fatto che le norme deontologiche costituiscono espressione di una giurisdizione speciale integrata all’interno dell’ordinamento statale”. In ogni caso, nello specifico giornalistico, è riconosciuto a tali norme pieno valore normativo interno (all’ordine) e le violazioni sono sanzionate secondo la gravità dell’infrazione.

Le sanzioni disciplinari, previste dalla legge del 1963, che istituisce l’Ordine, vanno dall’avvertimento, alla censura, alla sospensione fino eventualmente alla radiazione. In Italia sono fondamentalmente  2 i codici deontologici, sottoscritti dall’Ordine dei Giornalisti e dalle associazioni di categoria, che possono essere direttamente, o indirettamente, riferiti alla tematica dei contenuti sponsorizzati: La Carta Informazione e Pubblicitàdel 1988 e laCarta dei Doveri del giornalista, del 1993. La prima Carta definisce i criteri, formali e strutturali, che normano la riconoscibilità del messaggio pubblicitario in quanto tale, sia nei rapporti editore-giornalista che in quelli editore-lettore. La Carta dei Doveri definisce invece, in ambito generale, il dominio delle responsabilità del giornalista nei confronti della corretta comunicazione del messaggio pubblicitario.

 

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