James Risen, il carcere pur di proteggere una fonte

18 Giugno 2014 • Etica e Qualità, Libertà di stampa • by

Quando la Corte Suprema americana, di recente, ha rifiutato la richiesta in appello fatta da James Risen, un reporter del New York Times e Premio Pulitzer, ha affossato anche la possibilità di un dibattito a lungo termine sulle conseguenze legali del fare giornalismo a partire dai leak. L’insicurezza, ora, è destinata a prolungarsi e Risen potrebbe addirittura dover andare in carcere per aver rifiutato di fornire al governo Usa informazioni su una fonte riservata. La reazione del giornalista, rilasciata al suo giornale, è stata concisa ma inequivocabile: “continuerò a combattere”.

Tutto il caso ruota attorno a un capito del libro State of War: The Secret History of the CIA and the Bush Administration, che Risen ha pubblicato nel 2006. Il testo parla anche di un piano segreto della Cia per sabotare la ricerca iraniana sul nucleare. Risen è stato chiamato a deporre nel 2008 per testimoniare al processo contro Jeffrey Sterling, un ex ufficiale della Cia accusato di essere il whistleblower dietro una fuga di notizie dell’agenzia. Per ben 6 anni, il Dipartimento di Stato ha cercato di ottenere il nome della fonte di Risen. Le reazioni alla sentenza di inizio giugno non si sono fatte attendere.

“Se c’è qualcosa di ottimistico nella limitazione della corte”, ha scritto Erik Wemple del Washington Post, “è che non ha riaffermato le accuse d’appello contro Risen”. La questione della protezione delle fonti confidenziali, “ha bisogno disperatamente di chiarezza”, ha scritto invece Rem Rieder di Usa Today, lamentando anche l’inattività della corte. “Si tratta di una questione importante, non solo per i giornalisti ma per tutto il pubblico allo stesso modo. Ci sono casi in cui i whistleblower necessitano di anonimato per proteggere le loro vite quando rivelano informazioni rilevanti per l’opinione pubblica, sulla corruzione, condizioni di lavoro poco sicure, rischi ambientali e simili. È impensabile che i giornalisti finiscano in prigione per aver fatto il loro lavoro e per aver onorato i loro impegni”, ha specificato Rieder.

Matthew Cooper di Newsweek, già messo egli stesso sotto pressione governativa quando si è rifiutato di fornire informazioni confidenziali nel caso Valerie Plame, sostiene che la Corte Suprema avrebbe paradossalmente fatto un favore a Risen e alla libertà di stampa in genere perché “se la  corte ha preso il caso, di sicuro avrebbe preso decisioni contro Risen e se ne sarebbe uscita con un punto di vista che avrebbe fatto arretrare ulteriormente i diritti della stampa”. Roger Parloff di Fortune invece nota le tempistiche del caso Risen. “Qualsiasi report che ha vinto un Pulitzer quest’anno per il lavoro fatto con Edward Snowden sarebbe nei panni di Risen, se Snowden non avesse, in una caso raro, rivelato la sua identità, dopo aver lasciato il paese”.

Il New York Times, dal canto suo, sostiene il suo reporter. “Jim Risen è un eccezionale reporter di sicurezza nazionale”, ha dichiarato Dean Banquet, Executive Editor del NYTimes a Poynter, “e continua a fare un lavoro molto potente”. “I giornalisti come Jim”, ha proseguito Banquet, “dipendono sulle fonti confidenziali per ottenere informazioni che il pubblico deve conoscere. Il fallimento della corte nel proteggere il diritto di un giornalista di difendere le sue fonti è profondamente preoccupante”.

Risen ha anche ricevuto sostegno dal 20 testate giornalistiche e gruppi di stampa. In una lettera alla corte, i sostenitori del giornalista hanno chiesto che venisse accolta la petizione di Risen e che venisse chiarito il caso speciale rappresentato da un reporter. Il Committee to Protect Journalists ha chiesto al Dipartimento di Giustizia americano di ritirare una richiesta di comparizione fatta per forzare Risen a dare una testimonianza che avrebbe rivelato l’identità di una fonte confidenziale. L’anno scorso il Committee ha pubblicato un report speciale sull’amministrazione Obama e i suoi tentativi aggressivi nel portare avanti investigazioni contro i leak.

A questo punto, tocca al Dipartimento di Giustizia decidere se mandare Risen in prigione. Prima della sentenza, il Procutarore generale Eric Holder ha accennato alla possibilità di non concretizzare questa opzione. “Fino a quando sarò procuratore generale, nessun reporter andrà in prigione”, ha dichiarato Holder in una conferenza stampa, “fino a quando sarò procuratore generale, qualcuno che ha fatto solo il suo lavoro non sarà perseguito”.

Photo Credits: YouTube

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