Pensare a informare o a soccorrere? Il duro mestiere del fotoreporter

15 Aprile 2011 • Cultura Professionale, Etica e Qualità • by

Il fronte di Sidra. Foto di Roberto Schmidt

Questa settimana a Perugia, nella consueta cornice del Festival del Giornalismo, tra i molti temi si discuterà anche circa la figura, ritenuta paradossale, del peacekeeping in Afghanistan. Lo sfondo che animerà tale dibattito è la visione del documentario bellico “Armadillo”, girato dal danese Janus Metz. Una pellicola criticata da più parti per le immagini choc riprese stando accanto ad alcuni soldati danesi in missione di pace per la forza internazionale ISAF nella regione di Helmand, nota per le coltivazioni di oppio. Le sequenze ritraggono violenza, isteria, impotenza e desolazione umana, riportando al centro l’annoso dilemma circa la necessità di mostrare ciò che accade senza filtri. Ogni fotoreporter, ogni cameraman hanno la propria personale risposta circa la necessità di mostrare immagini crude e di solito non rispondono solo cinicamente ” è il nostro lavoro”. Sempre più spesso al solo mestiere si aggiunge un forte sentimento di solidarietà umana, apparentemente in conflitto con il dovere di testimoniare la verità tramite immagini.  Esistono casi, inutile dirlo, in cui i giornalisti possono trovarsi a dover scegliere tra informare o soccorrere. Ciò che accade in quei secondi, in quei minuti, a volte, potrebbe cambiare la vita professionale di un fotografo o del malcapitato bisognoso di aiuto. Abbiamo provato a chiedere lumi sul tema a qualcuno che da poco si è avvicinato alla professione di fotoreporter che opera nella zone più “calde” del mondo, si tratta del collega Alessio Romenzi. Lo scoviamo in una capitale del Medio Oriente, ormai sua base operativa di una professione intrapresa con molta passione e curiosità.

Alessio cosa ti ha spinto ad intraprendere questo lavoro?

“Che domanda impegnativa. Io non sono un veterano, in Libia ho avuto la mia prima esperienza con la fotografia di guerra e mi dedico al fotogiornalismo da poco più di un anno. Non ultimo non sono molto avvezzo con le parole, scritte o parlate che siano, ma prima di rispondere alla domanda faccio alcune precisazioni. Non è un caso che io lavori soltanto con le immagini e l’ho fatto specializzandomi nella copertura di eventi sportivi in principio, in particolare salto ostacoli di cavalli. Nel 2008 ho poi frequentato un master di fotogiornalismo all’ISFCI in Roma e questo mi ha aperto gli occhi su quello che volevo e potevo fare con la mia fotografia. Potevo raccontare quello che vedevano i miei occhi con un linguaggio nuovo, diverso, in un contesto pericoloso, spesso con tempi davvero ridotti. Potevo far guardare la gente nel mirino della mia macchina fotografica. Mi sono così trasferito a Gerusalemme, grazie anche all’appoggio di Marco Longari, fotografo AFP, vivendo dall’interno la vita dell’agenzia fotografica, adattandomi a quei ritmi e quel dinamismo che giorno dopo giorno hanno formato e continuano a formare la mia figura di professionista e di uomo in territori dove ciò che vediamo è giusto mostrarlo al mondo. Il Medio Oriente è stato un serio banco di prova per me, così denso di contrasti e stimoli da formare più di qualunque altra scuola. Posso dire che lì ho cominciato veramente a fare questo lavoro e forse solo a queste latitudini ci si pone la domanda circa la necessità di mostrare senza mediazione quanto si fotografa. A questo aggiungi che negli ultimi tempi, a proposito di Nord Africa, si è delineata una nuova configurazione di rapporti tra il reporter di guerra e l’operatore umanitario, con un parziale avvicinamento tra queste figure pure creando nuove competenze e responsabilità per entrambe le figure professionali.”

Ti sei mai trovato a dover scegliere tra informare e soccorrere?

“Si e non ho dubbi: sono prima di tutto un uomo, quindi, quando è servito veramente il mio aiuto ho spostato la macchina fotografica sul fianco e ho usato le mani per fare quel che c’era da fare, forse perdendo qualche buono scatto di cui non mi sono certo pentito.”
Non solo fotografare la guerra e raccontarla, insomma, ma anche documentare e mediare tra le due parti in conflitto. A Gerusalemme la Search for Common Ground, un’organizzazione non governativa americana, ha ideato un canale informativo sul web, il Commond Ground News Service,  utilizzato per monitorare la produzione giornalistica araba e israeliana ed estrarne gli interventi sull’opzione non violenta, su possibili soluzioni non conflittuali ed iniziative pacifiche per poi diffonderli tra la popolazioneMa sono davvero utili questi enti e non si rischia una contaminazione tra le diverse professioni?

“Conosco questo genere di figura e conosco il canale di cui parlate Search for Common Ground può anche funzionare perché tutto aiuta a farsi un’opinione ma, come sempre, nel marasma e nell’eccesso di informazioni fornite dai media, è utile che l’utente finale implementi le sue conoscenze con news bilanciate, l’utilità finale è determinata dall’utente. Per ciò che riguarda la contaminazione ho un’idea precisa. Anche io divido le mie giornate lavorative tra AFP, come stringer, e organizzazioni non governative o UN che operano sul territorio israelo-palestinese. Lavoro sia in Israele che West Bank e Gaza.”

Dunque sei stato anche in Egitto e in Libia?

“Si e lì mi sono misurato per la prima volta con eventi che troveremo nei libri di storia. Dire che è stato interessante essere testimone di questi fatti epocali e respirare quelle situazioni e tanta polvere è dire poco. Mi sono ritrovato coinvolto in un mare di sensazioni che non potevo neanche immaginare prima di trovarmici dentro ed è stato anche troppo facile fotografare. A chi mi chiede cosa ci sia di così attraente nello stare in mezzo alla calca di Tahrir o cosa si provi a stare sotto le bombe del colonnello libico, io rispondo che sono state le situazioni umane dove ho respirato più sincerità. Voglio dire che questi eventi sono fatti da uomini che io considero “nudi”, tanto erano e sono chiare le loro intenzioni. Nei loro occhi, e a volte nella loro incoscienza, c’era la sola volontà di raggiungere uno scopo, un desiderio di libertà. Parlo di uomini disposti a perdere la vita per ottenere quel che volevano, in grado di immolarsi anche davanti ad un obiettivo di macchina fotografica, sempre per tornare all’argomento di apertura.”

Quella gente avrebbe fatto le stesse cose anche senza gli occhi dei fotografi internazionali puntati su di loro?

“La risposta a tale domanda è utile per rispondere alla liceità o meno di mostrare tali eventi all’opinione pubblica internazionale. Qui accadrebbero lo stesso, come sempre è avvenuto in questo angolo di mondo. In Libia abbiamo visto uomini mettere in campo le loro povere doti di strateghi e guerrieri e per fare un buon lavoro fotografico credo fosse sufficente stare al loro fianco. Non parlo solo dei momenti d’attesa e di organizzazione ovviamente perché la guerra – o come volete chiamarla voi in Occidente – bisogna documentarla tutta, stando lì anche quando le cose accadevano, quando c’erano gli attacchi, quando le opzioni per i combattenti erano scappare o attaccare. A quel punto la foto, la testimonianza viene da sola, quasi come una registrazione in presa diretta che capta tutti i rumori. Cadono le maschere e ti ritrovi nell’inquadratura gente pulita e onesta, che si mostra, che lo voglia o meno, nella propria natura animale. Le immagini crude, dolorose, quelle che fanno strizzare gli occhi o girare dall’altra parte, fanno parte di una storia da raccontare, sono in quella storia e quindi devono esserci ed essere mostrate. Forse sono ripugnanti ma la guerra è cruda, cinica, bastarda e se qualcuno, anche tra chi fa informazione, non l’avesse ancora capito è ora che ci faccia i conti. E non parlo solo delle immagini dal fronte, ci sono anche le retrovie, le popolazioni che anche se non sono attaccate direttamente subiscono le conseguenze del conflitto. Ci sono i bambini, e concludo, che faranno le spese di quelle terribili esperienze anche negli anni seguenti. C’è la fame, il freddo, il caldo torrido, la povertà perché non di solo bombe e mutilati è fatto questo mestiere e lo sanno bene anche le organizzazioni umanitarie che operano accanto ai reporter. A volte le immagini più difficili da mettere in macchina sono proprio quelle.”

Neanche il tempo di realizzare che il grad ci aveva mancato di 20 metri e giù a fare foto. Foto Roberto Schmidt

*Alessio Romenzi, freelance in Medio Oriente, è rappresentato dall’agenzia fotografica CORBIS.

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