Il giornalismo nel Triangolo delle Bermude

9 Marzo 2009 • Digitale • by

Der Tagesspiegel, 15.02.2009
 
Stop degli introiti pubblicitari, smantellamento delle redazioni, migrazione dei lettori verso il web: il vortice che  travolge la stampa statunitense.
Due anni fa David Carr, illustre  giornalista di media del New York Times, speculò su come gli storici, in retrospettiva, avrebbero valutato i tempi odierni: “C’è una certa probabilità che, esaminando il periodo della storia americana che stiamo vivendo, essi si stupiscano della scomparsa del giornalismo”.

In merito, nell’Atlantic Monthly, rincara la dose Michael Hirchorn ipotizzando che persino il New York Times, icona della stampa statunitense, potrebbe fallire già nell’anno in corso. Infatti, se c’è un settore  in America che se la passa peggio delle banche è proprio quello dei quotidiani. In America siamo arrivati al punto in cui non solo è a repentaglio l’esistenza dei quotidiani ma anche la sopravvivenza del giornalismo di qualità in quello che appare sempre più come triangolo delle Bermuda. La metafora si addice, poiché i giornali, e con essi le redazioni, sono stati sottoposti ad una forte pressione da più lati e contemporaneamente. I lettori migrano a frotte verso internet. Del resto non c’è di che meravigliarsi: lì  i contenuti sono gratis, anticipano gli altri media e sono a misura di utente. Certo è da molti anni che le case editrici si confrontano con  il cambiamento nelle abitudini dei lettori e se hanno puntato sull’online e sul gratuito è perché nutrivano la speranza che, insieme agli utenti, sul web migrassero anche le entrate pubblicitarie della stampa. Se così fosse,stato le redazioni dei quotidiani sarebbero salve. Infatti, se invece di sfogliare il giornale a colazione il pubblico leggesse il quotidiano in rete, si risparmierebbe su quei costi fissi che oggi per le case editrici sono diventati quasi insostenibili: carta, stampa e distribuzione.
 
Fino a poco tempo fa i quotidiani online registravano ancora considerevoli tassi di crescita.  Nel 2008 la Top ten indicava 40 milioni di visitatori in più rispetto all’anno precedente, con un incremento del 16%. Tuttavia, se si segue  l’ultimo rapporto del Project for Excellence in Journalism sulla condizione dei media statunitensi, le prospettive appaiono tutt’altro che rosee. “A delinearsi sempre più come il maggiore problema dei media tradizionali non è più la questione del dove le persone traggano le informazioni, ma in che modo pagare per ottenerle. Risulta chiaramente che la pubblicità non segue i consumatori sull’informazione online. Anzi, le offerte di notizie e la pubblicità sembrano divergere completamente”.
 
I manager delle case editrici hanno sbagliato i loro calcoli su due punti fondamentali. Ai “bei, vecchi tempi”, gran parte delle testate aveva oligopoli o monopoli regionali o locali, possedeva cioè una posizione dominante sul mercato che permetteva loro di decidere  liberamente i prezzi delle inserzioni, ottenendo così per diversi decenni rendite da capogiro. Internet, al contrario, è il luogo dalla libera concorrenza. Un semplice click del mouse separa infatti dal concorrente che punta agli stessi inserzionisti. Per questo motivo si riducono dunque i margini per i fatturati della pubblicità con i quali in precedenza le redazioni si facevano generosamente finanziare. Sono  finiti i tempi in cui non solo molti editori, ma anche diversi redattori si crogiolavano nella loro nicchia come topi nel formaggio. Intanto le ottime condizioni  in cui opera il mercato pubblicitario persistono  anche per un altro motivo. Infatti  diversamente da Henry Ford, il quale si preoccupava che la metà del suo budget pubblicitario venisse buttato dalla finestra senza sapere di quale metà si trattasse, esso ha la possibilità di raggiungere il suo target molto facilmente. Ma nel frattempo chi convoglia il grosso delle inserzioni che farebbero comodo alle case editrici sono Google e gli altri grandi  motori di ricerca.
Anche questa tendenza sembra sia sfuggita ai manager delle case editrici. Oggi chi cerca una nuova fidanzata o desidera vendere la propria auto, se non è egli stesso un esercente può mettere le sue inserzioni gratuitamente online. L’affare dei piccoli annunci, che negli Stati Uniti costituiva ancora pochi anni fa il 40% delle entrate della pubblicità delle case editrici, su internet dilaga ad una velocità da capogiro. Infatti con le pagine di annunci sui giornali si ottengono ogni anno circa 14 miliardi di dollari di fatturato, anche se si tratta di un terzo in meno rispetto al massimo storico del 2000. Il terzo vertice del triangolo delle Bermuda è quello a cui viene prestata la minor attenzione nella discussione sul futuro dei giornali.
 
Difficilmente negli anni passati  un altro settore economico è stato potenziato quanto quello delle pubbliche relazioni. Ad una schiera di più di 243.000 persone impiegate, si contrappongono solo circa 100.000 giornalisti. Il Bureau of Labor Statistics, un’ autorità comparabile agli uffici statistici federali, prevede per le persone impiegate nelle PR un ulteriore 18% di crescita, mentre le redazioni continueranno a restringersi ad una velocità specularmente sostenuta. Così accelera in modo prevedibile una tendenza che Barbara Baerns, esperta berlinese di comunicazione, aveva osservato con preoccupazione già anni fa: le vie d’accesso per le pubbliche relazioni si aprono sempre di più, con un singolo click del mouse le redazioni trasformano sempre più spesso i comunicati stampa di ditte, ministeri e ulteriori gruppi di interesse in pezzi giornalistici senza verificarne l’attendibilità. Ne deriva che i lettori più intelligenti dubitano sempre più della credibilità dei loro media e accettano sempre meno di dover pagare per questo tipo di informazione. Viceversa, i responsabili della comunicazione nelle imprese, nella politica e nell’amministrazione e presso le organizzazioni no profit si chiedono se sia il caso di spendere tanto denaro, quanto in precedenza, per della pubblicità costosa, vista la possibilità di poter inserire le loro comunicazioni nella parte redazionale del giornale senza investire in inserzioni pubblicitarie. E se da un lato il loro lavoro di PR ne trae vantaggio visto che anche i messaggi risultano più credibili, le redazioni invece soffrono vedendo assottigliarsi le proprie entrate e le risorse necessarie per  svolgere ricerche approfondite. E il  giornalismo rischia di trasformarsi in un lavoro di classificazione.
 
E se si riuscisse a fermare questa spirale discendente? Al momento però essa tende piuttosto ad accelerare: Il Los Angeles Times e il Chicago Tribune non saranno probabilmente gli ultimi quotidiani statunitensi  a dover annunciare l’insolvenza. Molte case editrici di giornali sono talmente indebitate che le loro azioni vengono quotate solamente come “penny stock”. La maggior parte delle redazionI, rispetto a qualche anno fa, ha dimezzato il suo organico. Certamente, facendo un paragone con le redazioni tedesche sorprende pensare che il San Francisco Chronicle oggi si avvale della collaborazione di 280 persone. Tuttavia tali paragoni sono ingannevoli. Per poter valutare lo stato delle cose bisogna sapere che un paio di anni fa essa ne contava più di 500-. Con ogni licenziamento si riduce “ la memoria istituzionale” della redazione e i lettori perdono un esperto. Con ogni ondata di tagli si inaspriscono i conflitti di distribuzione e il clima di lavoro ne risente. David Carr, il giornalista esperto di  media del New York Times citato all’inizio, ha fatto riferimento recentemente all’esempio dell’industria musicale. In essa ha preso piede I-Tunes, arginando così il problema delle copie pirata che minacciavano di porre fine al settore. Allo stesso modo si  potrebbero anche salvare le case editrici dei giornali. Bill Keller, direttore esecutivo del New York Times, qualche settimana fa ha confermato ai lettori che la casa editrice si troverebbe in seria difficoltà e che si sta vagliando l’ipotesi di tornare alla formula del pagamento per i contenuti online.Questo dietro front annullerebbe la svolta verso il gratuito intrapreso due anni fa. Tendenza che non è inconsueta se si pensa ad esempio al mercato giornalistico berlinese.
 
Da tutto questo si evince che il giornalismo di qualità comporta dei costi che i proventi della pubblicità online non riescono a coprire, nemmeno quando i contatti sono molto alti. In questa luce è possibile che i lettori e le lettrici in America debbano presto abituarsi al fatto che il loro giornale del cuore costi più di un latte macchiato da Starbucks, anche volendolo leggere “solo” in rete.

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