Navigando in un sistema mediatico complesso

11 Febbraio 2016 • Digitale, In evidenza • by

4270003728_8519ba6d8b_o

KayVee.INC / Flickr CC

Un vecchio amico che negli anni ’80 lavorava come capo ufficio stampa di una Ong internazionale mi ha detto che se, all’epoca, riusciva a piazzare un articolo nell’edizione del Guardian di quel giorno, allora il suo lavoro poteva dirsi concluso. Dato che si trattava dell’unico giornale che i suoi capi, liberali e internazionalisti, leggevano, vedere il proprio nome su quelle pagine coincideva con il “parlare al mondo” della loro organizzazione. Come mi ha detto il mio vecchio amico “potevo anche scendere al pub per il resto della giornata”. Questi erano i giorni felici dell’era pre-Internet.

Oggi, chiunque voglia attirare l’attenzione sul proprio lavoro deve navigare in un paesaggio mediatico molto più complesso, fatto di un range sostanzialmente infinito di piattaforme, canali, network e ri-distributori di informazioni molto influenti. Per gli accademici che vogliono massimizzare la audience attorno al loro lavoro, ad esempio, consiglio di leggere questo articolo. Voglio però aggiungere un paio di elementi ulteriori che penso possano essere utili per calcolare come investire il proprio tempo cercando impatto, interazioni e citazioni nei media. Per prima cosa, bisogna pensare al potere e in seconda battuta alle emozioni.

Potere
Come prima cosa è importante ribadire come sia cambiato questo panorama. Di recente, ad esempio, mi è capitato di parlare con alcuni giovani autori: 10 anni fa avrebbero combattuto per anni per far passare la loro idea innovativa dall’Edinburgh Fringe alla programmazione affollatissima di Radio 4 e, nel migliore dei casi, fino al nirvana del broadcasting: una serie intera in programmazione su un canale tv. Ora, al contrario, possono mandare in onda il loro programma su YouTube, promuoverlo con Instagram, Vine, Twitter o Facebook e ricevere di conseguenza un incarico dal canale online Bbc 3. Il loro lavoro sarebbe accessibile online, on demand, 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Detto questo, il successo definitivo per loro arriverebbe ancora una volta solo quando il loro lavoro venisse scelto per essere messo in onda sui principali canali della Bbc, 1 o 2.

I ricercatori che sono passati dal mulino dei journal accademici peer review sono ben consapevoli di questo tipo di gerarchia di credibilità e attenzione e sanno come il vecchio processo di filtraggio e certificazione per la pubblicazione non ha conosciuto in alcun modo la disruption portata dai social network. Certo, anche solo con poche centinaia di follower su Twitter e con una strategia di intervento social ben pensata possono raggiungere un’audience molto più grande e rilevante di quella che garantirebbe loro il meccanismo lento della pubblicazione accademica. Ma se il loro obiettivo principale è quello di avere un impatto sulla società, allora essere citati da Radio 4 o sul Times è ancora il modo migliore per aumentare la propria reach. Questo è particolarmente vero perché quelli che chiamavamo “media tradizionali” stanno ora cercando di infiltrarsi in tutti i canali digitali.

Per usare una metafora topografica, quindi, si può avere una mappa di questo paesaggio che sia costruita secondo la destinazione che si vuole raggiungere, ma i grandi numeri e l’influenza sul mainstream sono ancora guidati dai media mainstream e i giornali, anche quelli di carta, sono fortemente resistenti in questo senso. I notiziari e i canali analogici comandano ancora le audience e il loro influsso è sceso di poco nell’ultimo decennio. Il modo in cui le persone consumano quei media, invece, sta cambiando radicalmente. Non c’è soltanto una nuova generazione che non compra i giornali o non possiede una tv, il punto è che anche quando consumano contenuti, questo avviene on demand e in tandem con i social media. Quello che viene fruito – e anche prodotto da un’impresa mediatica mainstream – viene ora scoperto, di norma, grazie agli stessi social network che quelle persone usano per l’intrattenimento e per le interazioni sociali. E questo è il punto in cui le emozioni entrano in gioco.

Emozioni
È chiaro come le emozioni siano un driver chiave dell’attenzione sui social media. Bisogna comunque tenere bene a mente che quello di “social media” non è un concetto monolitico, nonostante i tentativi di Mark Zuckerberg di monopolizzare il settore. Certo, la sezione “Comment is free” del Guardian può essere stridente, isterica e aggressiva, ma ci sono celle civilizzate in cui la deliberazione avviene in modo indisturbato. Ma l’economia della condivisione, online, è certamente motivata da aspetti personali, perché i network di persone sono di per sé personali. Puoi certamente crearne alcuni per lo più per te stesso, ma quello che ci passa attraverso, per quanto a volte tramite il filtraggio degli algoritmi, è comunque selezionato consapevolmente o inconsapevolmente sulla base delle tue preferenze, interessi e attività. C’è di sicuro una selezione soggettiva in atto, qui. L’evidenza dice che molto di questo riguarda il senso di identità delle persone, i loro interessi personali e le emozioni con cui reagiscono ai contenuti.

Certamente la ricerca accademica deve essere fondata sull’evidenza, argomentata in modo razionale e misurata in modo critico. La sua ricezione, invece, specialmente sui social media, avrà molto di più a che vedere con quello che chiamo, in modo piuttosto libero, “emozioni”. Ho scritto molto sul modo in cui questo aspetto ha un impatto sul mio campo di ricerca, il giornalismo, ma che piaccia o meno, i ricercatori che usano i social media agiscono, in un certo senso, in modo giornalistico. E, di conseguenza, ci sono rischi e opportunità.

L’opportunità è certamente quella di mettere un volto umano al proprio lavoro: perché non ammettere di avere un interesse personale in una specifica ricerca? E che questa possa davvero avere un impatto sulle vite delle persone e sulla loro conoscenza? O che questa potrebbe essere affascinante per chiunque abbia un senso di curiosità verso la società o per qualcuno che cerca dei dati per completare un’altra ricerca? Questi elementi “emozionali” possono essere carburante importante per informazioni altrimenti un po’ polverose. Potrebbe essere lo zucchero per la pillola della conoscenza. Esistono strumenti semplici, come usare le immagini o i video, che potrebbero far crescere quel tipo di engagement. Per alcuni network come Facebook, ad esempio, un inquadramento più positivo potrebbe portare a più condivisioni. Per altri, come Twitter, un approccio maggiormente combattivo, invece, sembra attrarre ancora maggiore attenzione. Si può sperimentare, e molto.

I rischi da tenere in considerazione sono comunque altrettanto ovvi. Chi vorrebbe, ad esempio, attirare troll o quel tipo di traffico che viene generato da articoli di click bait come “Questo ti cambierà la vita per sempre”? Parlando in modo generale, le emozioni possono causare l’omofilia, le filter bubble o gli effetti di echo chamber per cui le persone leggono solo quello con cui sono d’accordo. Di nuovo, si può sperimentare per scoprire cosa funziona con quelli che sono i propri obiettivi strategici di comunicazione.

Di sicuro, tutti i giornalisti, dalla Bbc a BuzzFeed, stanno imparando a operare in questo ambiente sempre più emotivo, dove il potere sta passando di mano e l’idea di mediazione obiettiva è, anche giustamente, motivo di discussione. Stanno imparando, ad esempio, a essere più trasparenti nei confronti della loro soggettività e stanno imparando anche, grazie all’aiuto dei dati che forniscono i media online, a conoscere la loro audience, il vero elemento che costituisce questa economia dell’attenzione digitale basata su una valuta emozionale.

Articolo pubblicato originariamente su LSE Communications Blog il 3 febbraio 2016. Articolo tradotto e ripubblicato per gentile concessione

 

Print Friendly, PDF & Email

Tags:, , , , , , ,