Francesco Costa: “I commenti agli articoli sono inutili”

2 Ottobre 2013 • Giornalismo sui Media • by

Il ruolo dei commenti agli articoli online è ancora dibattuto. Sono uno strumento utile per creare dialogo con i lettori e per la trasparenza, oppure sono solo uno spazio lasciato aperto ai troll e a ogni genere di bassezza? Francesco Costa, giornalista de Il Post e blogger, ha pubblicato di recente un articolo per IL, il mensile de Il Sole 24 Ore, equiparando i commenti alle interviste ai passanti per strada che spesso affollano le notizie dei telegiornali. Nella visione di Costa, i commenti non servono ad allargare gli orizzonti di una testata, non influiscono sui dati di traffico e, soprattutto, non servono a migliorare la qualità dei contenuti. Anzi.

Uno dei maggiori problemi creati dai commenti riguarda proprio la loro gestione: grandi testate si sono dotate di un team apposito per lo smistamento, ma la strategia – oltre che costosa – non è sempre efficace. Altre hanno chiuso la porta ai commentatori anonimi. Altre ancora, al contrario, sono tornate a utilizzarli, come nel caso dello scozzese Daily Record. Uno strumento come Disqus, utilizzato anche da Il Post, consente di lasciare agli utenti stessi la possibilità di valutare i commenti, facendo in modo che solo quelli rilevanti ottengano visibilità. Ma la questione è più ampia e va a toccare anche alcune delle idee più ricorrenti sul giornalismo online. I commenti dei lettori sono informazione oppure, come sostiene Costa, solo chiacchiericcio? Glielo abbiamo chiesto.

Il problema non è l’anonimato dei commenti, sono i commenti di per sé, dici nel tuo articolo. Cosa non ti convince dei commenti sulle pagine dei giornali?
“Spesso, quando si parla di commenti e del problema ad essi connesso, si usa un atteggiamento censorio e poliziesco da parte di persone che non hanno molta dimestichezza con il mezzo. A volte succede che un politico, ad esempio, venga preso di mira per una qualche ragione tra i commenti di un sito di news e siccome l’oggetto degli insulti o della minacce è un politico, allora si propone il “giro di vite” sui commenti o l’identificazione dei lettori. Penso che siano misure non solo inefficaci per il problema, ma sbagliate in sé: le persone hanno il diritto di dire quello che vogliono, anche anonimamente, finché non violano le leggi. Il punto non è l’anonimato, il punto è che lo strumento, per i siti di news, è inutile e per certi versi dannoso ai fini dell’informazione, della creazione di una comunità di lettori e della crescita di una testata”.

Pensi che i commenti possano rappresentare un valore aggiunto per gli articoli? Spesso si è sentito dire che essi possono essere la naturale continuazione del pezzo, come se il giornalismo online debba necessariamente essere una conversazione aperta.
“Forse questo accade, in certi casi. Ma penso siano eccezioni, non la regola. Lo vedo succedere soprattutto in modo apprezzabile sui social network: un articolo, una volta pubblicato, viene rimbalzato, commentato e discusso da un numero di persone molto superiore di quello che lo commenta sul sito, specialmente su Twitter. Questo è un fenomeno interessante e una possibile risorsa. Sui commenti che sono ospitati sulla pagina del pezzo, dentro il sito di notizie, invece, ho molte più perplessità. Una cosa sono gli utenti di Twitter o di Facebook: queste piattaforme hanno numeri molto grossi. Le persone che, invece, commentano direttamente sul sito della testata sono un microcosmo molto ristretto, non solo nel caso di un sito di news relativamente piccolo come Il Post, dove lavoro da tre anni e per il quale penso di aver letto quasi tutti i commenti che abbiamo ricevuto. Ho lavorato anche come moderatore dei commenti per il sito de L’Unita e anche là mi sono fatto un’idea di quello che succede. Posso dire che, almeno per la mia esperienza limitata ma consistente, le occasioni in cui la discussione arricchisce un articolo sono davvero un’eccezione. Ti faccio un esempio: nella montagna di segnalazioni in cui ci si imbatte su Twitter ogni giorno, quante volte qualcuno ha segnalato un commento a una notizia? A me non è capitato mai, mentre le segnalazioni agli articoli sono continue. Non ricordo un’occasione in cui un commento sia diventato virale. Il mezzo non è adeguato a generare quel tipo di fenomeno che dici tu, quello che avviene è un meccanismo di micro-community in cui a commentare sono quasi sempre le stesse persone e raramente ne viene fuori una discussione interessante. Il dibattito su questo argomento, comunque, è vivo e molti giornali stanno prendendo posizione. Il mio punto di vista è scettico proprio sul mezzo”.

Pensi che per i blog sia diverso? La “Big Conversation” degli albori della blogosfera esiste ancora oppure anche in quel caso si è creato questo fenomeno di micro-community come per i giornali?
“Mentre un giornale ha come obiettivo primario quello di informare e di dare le notizie, il fine di un blog è molto probabilmente quello di commentare e discuterle, le notizie. In quel contesto i commenti hanno molto più senso. Un blog, inoltre, ha numeri più piccoli come quantità di lettori e, di conseguenza, gruppi più piccoli tra i quali la conversazione è più facile da seguire e da leggere. Ho un blog dal 2003 e un anno fa ho comunque chiuso i commenti: anche là si era creata una microcomunità che respingeva, invece di accogliere nuove persone. Per la mia esperienza, tutti gli incontri o le idee più interessanti per il mio blog sono venute da persone che mi hanno scritto via mail. Curiosamente, nessuno tra i commentatori più assidui del mio blog, alla chiusura dei commenti, mi ha scritto una riga. Sono spariti nel nulla. Questa è la mia esperienza, non dico che abbia senso in assoluto”.

Una delle soluzioni che proponi è la classica “lettera al giornale” nella quale un lettore che ha qualcosa di interessante da dire può effettivamente inviare un commento o segnalare un errore.
“Mi rendo conto che possa suonare un po’ vetusto,  ma a me pare che un giornale debba essere interessato alla qualità e alla veridicità di quello che pubblica. Questo riguarda necessariamente anche i commenti che ospita. Non vedo perché i direttori debbano tenere molto a quello che pubblicano, intendo gli articoli, mentre quello che viene scritto sotto questi ultimi, invece, non debba essere di loro interesse. Io invece penso che anche i commenti li riguardino, soprattutto se i commenti sono di qualità molto scadente, se ci sono insulti o calunnie, anche oltre l’aspetto legale. Una soluzione è certamente moderare i commenti, in modo che solo quelli che meritano rimangano visibili: teoricamente è una soluzione perfetta, praticamente è più complessa. L’Huffington Post americano ha 40 persone che se ne occupano ma comunque non ce l’ha fatta. Gestire i commenti è un lavoro pesante. Molte persone ci dicono che i commenti agli articoli de Il Post siano nettamente migliori rispetto a quelli di altre testate. Questo succede anche perché ci perdiamo un sacco di tempo. Non tutti i giornali possono indirizzare un investimento del genere solo per i commenti”.

Ma i commenti non sono anche uno strumento di trasparenza e accountability quando servono a segnalare errori o a creare un rapporto diretto con i lettori?
“Di sicuro sono molto utili nel caso in cui, in buona fede o meno, un giornale scrivesse qualcosa di sbagliato e un lettore lo facesse presente tra i commenti. Al Post cerchiamo di non fare errori in malafede e quando qualcuno ci segnala qualcosa – perché capita -, ci è molto utile. Quando leggiamo il commento, interveniamo correggendo il pezzo e ringraziamo la persona che ci ha fatto la segnalazione, poi, secondo noi, la faccenda è chiusa e possiamo cancellare il commento. Che nei commenti rimanga l’elencazione dell’errore e i ringraziamenti quando nel pezzo non ve n’è più traccia, perché è stato corretto, a cosa serve per chi arriva dopo? A questo proposito, abbiamo aperto una casella email apposita per segnalare gli errori, messa in luce in ogni articolo, dove chi vuole proporre una correzione può farlo. Il modo in cui trattiamo i commenti per segnalare gli errori è parte della nostra policy e serve a far sì che i commenti non siano intasati da cose che non c’entrano più nulla. C’è però questa idea del “vi ho beccati, questa non la sapevate” che Internet ha accentuato: nel nostro piccolo cerchiamo di disincentivarla, ma si tratta di piccolezze. Quando l’errore invece è in malafede, credo che più che i commenti a fondo pagina, oggi, i social network siano il luogo in cui avviene “lo smascheramento”. L’articolo “smascherato” può infatti raggiungere immediatamente anche il direttore del giornale, il giornalista, o la persona infamata dall’articolo falso. Al contrario, è molto difficile che un direttore se ne accorga leggendo i commenti all’articolo stesso”.

Negli Usa e nel Regno Unito sono molte diffuse le piattaforme di fact-checking come PolitiFact o MediaBugs. Qui da noi mancano. La loro crescita potrebbe essere un incentivo a sostituire la funzione dei commenti in questa accezione di trasparenza?
“Certamente. Un anno fa qui in Italia c’è stata un’esplosione di siti di fact-checking. Ne sono nati parecchi, alcuni amatoriali, ma uno fu lanciato persino dal Corriere della Sera. Non si è creato, però, qualcosa come PolitiFact e il fenomeno non è decollato. Queste piattaforme non avevano un approccio molto aperto, o forse non c’era tanto interesse a parteciparvi. Di sicuro i commenti possono avere un ruolo in questo senso, ma il fact-checking fa un’altra cosa: è un spazio fatto apposta per verificare quanto, ad esempio, Enrico Letta ha detto in un discorso. Non è uno spazio diviso tra persone che insultano qualcuno o la sostengono dove può arrivare qualcuno linkando altri contenuti. Con uno spazio creato apposta, dove le persone sono proprio invitate a discutere per trovare cosa è falso, allora può sicuramente funzionare”.

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