La copertura mediatica del terrorismo deve cambiare

4 Luglio 2017 • Giornalismo sui Media, In evidenza • by


La copertura mediatica dei recenti attentati terroristici di Londra e Manchester è stata dominata da elementi tristemente familiari: video di vittime urlanti girati con gli smartphone; dettagli dei primi frenetici soccorsi; varie congetture giornalistiche generiche come “si è trattato di terrorismo?” e speculazioni sulle identità dei presunti attentatori.

Nel caso di Manchester, inoltre, l’orrore è stato amplificato dal fatto che le vittime e i feriti dell’attacco fossero in larga parte giovani o molto giovani. Dagli attacchi dell’11/9, coprire giornalisticamente la violenza di organizzazioni come al-Qaeda o Isis è diventato uno dei punti fissi del repertorio dei media d’informazione: nel complesso, però, questo tipo di reporting, per come è fatto in molti casi, contribuisce ad accrescere il senso generale di vulnerabilità nei cittadini.

Quando guardo o leggo le notizie sugli attacchi pubblicate dai principali mezzi d’informazione internazionali, noto sempre più spesso come questi tendano a trattare i fatti come eventi distinti, come se fossero disastri ferroviari o rapine in banca. Mentre lavoravo sul mio libro, di prossima uscita, As Terrorism Evolves: Media, Religion, and Governance, mi è anche apparso chiaro come la maggior parte dei titoli giornalistici sugli attacchi dell’Isis non fosse in grado di riflettere adeguatamente la complessità né del terrorismo contemporaneo né dell’Islam nel complesso.

Chi sono queste persone che uccidono con così tanta leggerezza? Perché lo fanno? E soprattutto, come possono essere fermati gli attacchi? Rispondere a queste domande richiede una copertura quotidiana che offra più di una mera rappresentazione del caos generato dagli attentati. Dovrebbe essere un approccio più olistico al reporting a spiegare un fenomeno così ampio e che sta trasformando le nostre vite, proprio come fece la Guerra fredda 50 anni fa.

Un vuoto giornalistico
La copertura occidentale sugli attacchi terroristici dell’Isis quasi sempre, esplicitamente o implicitamente, rimarca una connessione con l’Islam. Ma spesso l’analisi si conclude così: molti giornalisti, infatti, evitano gli argomenti religiosi e questo crea un vuoto di conoscenza che i terroristi stessi, come gli attivisti anti-Islam e i politici, possono sfruttare. Il risultato? La religione di 1,6 miliardi di persone viene definita nel dibattito pubblico dalle azioni di pochi che spargono sangue in un’arena di Manchester o in un mercato di Baghdad. E proprio perché c’è una comprensione così limitata dell’Islam – il 55% degli americani, ad esempio, non conosce nulla di questa religione –, molti consumatori di news sono propensi ad accettare l’equazione “Islam uguale terrorismo”.

I risultati di uno studio del 2015 del Pew Research Center, ad esempio, hanno evidenziato quanto siano pervasivi gli stereotipi e quanto persistenti le tensioni a essi legate, al punto che un numero significativo di americani vedrebbe i musulmani come inevitabilmente anti-americani e violenti. Inoltre, quando i personaggi politici denunciano pubblicamente i musulmani, o quando vi è una reazione anti-Islam dopo un attentato, sono le organizzazioni terroristiche stesse a registrare una vittoria, perché alcuni musulmani finiranno inevitabilmente col vedere la propria religione sotto assedio e diventeranno quindi più suscettibili al reclutamento da parte di organizzazioni come al-Qaida o Isis, che si dipingono come difensori della religione.

In seguito agli attacchi terroristici, anche le risposte anti-estremismo da parte delle comunità musulmane potrebbero ricevere una qualche copertura. Per esempio, un messaggio anti-terrorismo prodotto in Kuwait e trasmesso subito dopo l’attentato di Manchester è subito diventato virale sui social e ha ricevuto attenzioni anche da parte dei media occidentali. Di norma, però, l’Islam scompare dalle notizie fino alla tragedia successiva, nonostante circa l’80% dei musulmani viva al di fuori del mondo arabo o in paesi di importanza sempre più crescente, come Indonesia, Pakistan e Nigeria. Il peso politico globale dell’Islam è, in un certo senso, paragonabile a quello del Cattolicesimo secoli fa. Se il ruolo dell’Islam nelle questioni globali ricevesse copertura adeguata, forse i nuovi consumatori di notizie realizzerebbero come l’Islam sia molto di più che mera violenza. E se l’apatia verso l’Islam diminuisse, i terroristi perderebbero uno strumento di reclutamento.

Affrontare onestamente la minaccia
La copertura da parte dei media di questi temi dovrebbe anche affrontare la questione dell’estremismo promosso direttamente dagli stati. Un esempio lampante è quanto sta facendo l’Arabia Saudita con l’ideologia musulmana wahabita. Questa dottrina fondamentalista fornisce un solido fondamento logico per trattare i musulmani moderati – così come i non musulmani – come nemici. Se i politici occidentali sono vincolati nell’affrontare la questione per ragioni collegate al petrolio e alle dinamiche geopolitiche, i mezzi d’informazione potrebbero invece giocare un ruolo più efficace nel descrivere come persino gli alleati storici aiutino il radicarsi del terrorismo.

I giornalisti potrebbero inoltre esaminare più in profondità la sofisticatezza delle operazioni terroristiche. Isis, per esempio, ha abilmente usato i social media per ispirare gli attentatori, anche quelli con cui non aveva un contatto diretto. Gli autori dell’attacco terroristico del dicembre 2015 a San Bernardino, California, non avevano ricevuto un addestramento o degli ordini da parte dell’Isis, eppure hanno giurato fedeltà al Califfato e hanno sferrato l’attacco sulla base delle informazioni che avevano raccolto online.

Ayman al-Zawahiri, l’attuale leader di al-Qaida, ha riconosciuto il potere dei media quando ha scritto, già nel 2004, che “più della metà di questa battaglia si sta svolgendo sul campo dei media. Siamo in una guerra mediatica, in una corsa ai cuori e alle menti della nostra Umma [gente musulmana]”. Isis ha usato i social media per diffondere il proprio messaggio, reclutare seguaci, addestrare i combattenti e raccogliere fondi. Questi gruppi sono diventati di recente in grado di contrattaccare – il Dipartimento di Stato degli Usa ha rilasciato oltre 300 video su YouTube per contrastare i messaggi dei gruppi estremisti –, ma i mezzi d’informazione tendono ancora a sottovalutare le capacità organizzative e militari dei gruppi terroristici.

Consideriamo ad esempio la lunga serie di sforzi perpetuati per liberare Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, caduta nelle mani di Isis dal 2014. Le fonti americane e irachene forniscono aggiornamenti vagamente ottimisti e questi vengono debitamente ripresi dai media. La battaglia, però, è in corso dall’ottobre 2016 e nonostante l’attacco sostenuto dagli Usa, alcune zone di Mosul rimangono ancora sotto il controllo dell’Isis. Cosa preannuncia questo per le future azioni militari dello Stato Islamico e per i suoi attacchi terroristici di vasta portata? Basarsi sui bollettini di guerra quotidiani mette in ombra le realtà a lungo termine che i giornalisti dovrebbero invece analizzare.

Più in generale, anche le azioni antiterroristiche degli Stati Uniti e degli altri paesi meriterebbe un esame più minuzioso. Il pubblico deve sapere cosa sta funzionando e cosa no. La sconfitta del terrorismo richiederà un mix di poteri forti e morbidi e chiudere i canali di reclutamento dei terroristi è quindi cruciale. Ciò richiede programmi innovativi per raggiungere coloro che sono più vulnerabili agli appelli estremisti.

Il terrorismo ha ora un ruolo importante nelle nostre vite e meriterebbe una copertura più coerente. I giornalisti che si occupano di queste tematiche dovrebbero sviluppare delle capacità specifiche su questo argomento multidimensionale. Ma soprattutto, il giornalismo sul terrorismo rimane ancora episodico e semplicistico. Dal brusco risveglio dell’11 settembre, il giornalismo, a mio avviso, non ha tenuto il passo con la sanguinosa crescita del terrorismo. Ora è il momento per rimettersi in pari.

Articolo tradotto dall’originale inglese da Giulia Quarta. Una prima versione dell’articolo è stata pubblicata da The Conversation

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