Vizi e virtù delle presidenziali americane

9 Novembre 2012 • Giornalismo sui Media, Media e Politica • by

Tempo di bilanci, in questa campagna elettorale americana appena finita, carica di virtù e vizi.  A cominciare dai costi: non a caso il 6 novembre i media, televisione e online in primis, hanno rilevato ripetutamente che la campagna 2012 è stata la più costosa in assoluto. Una tendenza al lievitare delle spese (alcune perfino occulte) che ha le sue origini anche nell’assetto giuridico e istituzionale. Un aumento non improvviso quindi, ma che segue un trend crescente e si accompagna alla mediatizzazione e alla personalizzazione dello scontro politico. Lo avevamo anticipato in un precedente approfondimento su Ejo: questa elezione del 2012 avrebbe lasciato in eredità non solo innovazioni ma anche degenerazioni. Spese in crescita e pervasività dello scontro politico sui media, infatti, vanno a braccetto e condizionano l’andamento delle elezioni anche quando non sono in grado di stimolare l’interesse del pubblico.

Tornando allora al martedì della vittoria di Obama, deve far riflettere l’insistenza mediatica sul tema della divisione degli Stati Uniti. Già nel 2005 il politologo Sergio Fabbrini annoverava tra i “vizi della iperpotenza democratica” l’emergere di un aggressivo populismo e di una personalizzazione dello scontro che stava già allora conducendo al diminuire di un senso di appartenenza collettiva, spiegabile anche con la diminuzione del ruolo di mediazione dei partiti. Ad oggi, queste tendenze già in corso diventano sempre più evidenti sui media e nei media. Da una parte sta infatti il discorso dei media, e la narrazione del 6 novembre lo esemplifica: il timore o la constatazione di una America divisa è un tema ricorrente e che a sua volta, paradossalmente, unifica il discorso mediatico.

Sempre mediaticamente parlando, il linguaggio del marketing e del targeting, che associa identità a preferenze politiche, si riversa poi sui sondaggi. E i sondaggi a loro volta vengono ripresi dai media, finché i media non ne parlano lo stesso linguaggio. Pagine e pagine, di carta e non, interpretano la elezione del 6 novembre sulla base delle identità di appartenenza: il voto dei giovani, quello delle donne, degli ispanici, dei neri, dei bianchi, degli anziani. La demografia diventa la chiave per leggere gli esiti elettorali ma anche il nuovo linguaggio dei media per interpretarli. “Tsnunami demografico”, “Romney, battuto dalla demografia”, per non parlare delle rilfessioni sui voti divisi per fasce di età, sesso, provenienza etnica, affollano la stampa occidentale. E la divisione in parti non passa solo sui media, ma li frequenta, attraverso gli spot invasivi dei candidati pronti a spendere, ma soprattutto attraverso l’endorsement spesso dichiarato delle testate.

DIVISI?

Questa partigianeria dichiarata, rilanciata, amplificata, ha una ulteriore chiave di lettura, il cui valore profetico verrà dimostrato solo dalla elezione successiva. Riguarda il rapporto tra le evoluzioni (ma anche le degenerazioni) del sistema politico e le degenerazioni (e soprattutto le evoluzioni) degli assetti e delle tendenze mediatiche. Sul ruolo dei social media in rapporto alle elezioni e al mondo del giornalismo, ma soprattutto riguardo alla sempre più ingombrante convergenza tra i media, abbiamo già fatto qualche considerazione negli approfondimenti precedenti. Le evoluzioni future di queste novità mediatiche appaiono ricche di potenzialità. Ma anche in questo caso le elezioni 2012 fanno intravedere pure le degenerazioni possibili.  Ciò che appare evidente durante e dopo il 6 novembre è proprio la capacità degli ecosistemi mediatici di imbastire e irrigidire il dibattito, realizzando le peggiori profezie sulle nuove tecnologie. Alexander Stille parla su Repubblica del 7 novembre di un web dove “si specchia una America di ultrà” e avanza i legami tra polarizzazione e cambiamento nel mondo dei mass-media. La riflessione non è di per sé nuova: che il mondo della rete sia fatto di nicchie è cosa nota. Ma la incarnazione nella realtà di profezie già annunciate è, questa sì, una nota davvero molto interessante. La manipolazione dei media emergenti ne struttura e definisce rischi e potenzialità: la campagna 2012 giunta al termine fa intravedere entrambi.

Paradossalmente, laddove le identità si chiudono in se stesse, la personalizzazione getta ponti e unisce. Perché la caratteristica e il paradosso della campagna elettorale americana sta anche in questo, nella capacità di “popolarizzare” la elezione. La presenza femminile di Michelle, la cui popolarità è cresciuta nel corso degli anni grazie anche a frequenti soft news e presenze in tv, l’abbraccio twittatissimo dei due coniugi che umanizza la vittoria, il sostegno dichiarato delle grandi pop star a fianco del Presidente, il discorso della vittoria di Obama che tiene insieme le citazioni di Kennedy e quelle di Frank Sinatra: questa è la tendenza tutta americana a mescolare senza barriere la formalità della elezione e la superficialità dello show biz. Questa è ancora una volta la capacità soprattutto americana nel mescolare hard e soft news. Paradossalmente, laddove le partigianerie hanno diviso, la popolarità tutta fondata sull’uso dei media ha unito, fornendo linguaggi comuni a cittadini comuni. Del resto l’uso del soft power, la capacità di persuadere e di imporre una cultura propria, è da sempre la principale arma degli Stati Uniti. Con gli altri funziona, e non a caso pagine e pagine di giornali europei sono dedicate all’America.

SOFT POWER

Una periferia del centro americano: così, dal punto di vista mediatico, appare il vecchio continente che assiste alla elezione del nuovo Presidente americano. La distanza si accorcia, le dirette della notte elettorale si moltiplicano, le homepage dei siti di informazione europei seguono lo spoglio dei seggi quasi in contemporanea con quelli americani. Il varco da colmare riguarda piuttosto un fuso orario che avvantaggia l’informazione online e risulta impietoso con la carta stampata del continente. Perciò la mattina dell’8 novembre, quando la stampa può finalmente consegnare una notizia che già tutti conoscono, la vittoria di Obama, ecco che il centro dell’attenzione diventa l’approfondimento, assieme a ciò che sarà dopo, chi verrà dopo, il ruolo dei Clinton e di Michelle,  quel “meglio che deve ancora venire” pronosticato da Obama e che quasi tutte le prime pagine riprendono. Pagine e pagine di carta sono dedicate all’America.

La campagna presidenziale americana ha avuto i suoi ritmi, segnati quasi sempre da eventi mediatici: le gaffes di Romney, la rivincita al primo dibattito televisivo, ancora i dibattiti, poi le urne. E la stampa mondiale, europea in particolare, ha seguito le evoluzioni con una attenzione pari e a volte persino superiore alle vicende di politica interna. Nonostante qualche editoriale sulla stampa europea avesse fatto pesare l’assenza dell’Europa nel dibattito fra i contendenti oltreoceano, questa assenza è diventata motivo di nuove riflessioni sugli equilibri geopolitici e sulla leadership degli Stati Uniti. Le vicende politiche e le elezioni in Cina sono diventate invece una sorta di alter ego di quelle americane: assai meno seguite e spesso utilizzate per confronti in negativo. Presenti sì, sulla stampa cartacea e sull’online, ma molto distanti: evidentemente minore la copertura cosiccome la vicinanza narrativa. “The other election”, l’ha definita il Times, mentre Le Monde ha cercato con info grafiche e qualche articolo di spiegare ai lettori un sistema politico lontano non solo geograficamente. La stampa francese ha puntato il dito sulla repressione, che contrasta con il modello statunitense, mentre in Italia il quotidiano La Stampa sottolineava il boom di tweet in Cina sulle elezioni americane. Protagonisti gli Stati Uniti, ancora una volta, in una campagna e una rielezione che lasceranno tracce, non solo positive.

 

 

 

 

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