Barrett Brown, classe 1981, è un giornalista americano che ha scritto, tra gli altri, per Vanity Fair, Huffington Post e Guardian. Il suo nome è più noto in connessione con Anonymous, di cui è stato informalmente portavoce, anche se il suo legame con il gruppo hacker sarebbe venuto meno già nel 2011. Inoltre, ha fondato il collettivo online Project PM, dedicato ad analisi sulle aziende di intelligence e sorveglianza private. Ad ogni modo, Brown è al centro di una vicenda che, come già nei casi di Chelsea Manning, David Miranda e Glenn Greenwald, Julian Assange ed Edward Snowden, solleva parecchie preoccupazioni per lo stato di salute della libertà di espressione e del giornalismo negli Usa e, in generale, nelle democrazie occidentali. Barrett Brown si trova, da un anno (era il 12 settembre 2012), nella prigione di Mansfield, in Texas in attesa di processo. Ha rifiutato le accuse e non ha patteggiato.
Brown si vede contestare diversi reati e la durata massima della reclusione che potrebbe vedersi infliggere raggiunge i 105 anni. Brown non è un personaggio facile e molti tratti della sua vicenda sono controversi, ma il giornalista/attivista, sostanzialmente, rischia grosso per un motivo: aver postato in una chat un link ai documenti rubati dal collettivo hacker al contractor americano Stratfor e pubblicati da WikiLeaks. Tra i capi di imputazione ci sono anche le minacce rivolte, via YouTube, a un agente dell’Fbi che stava investigando sulla sua vicenda. Nel caso specifico del filmato, Brown è pressoché impossibile da difendere, ma è evidente che l’enormità della pena che rischia non è di certo dovuta al video postato su YouTube o alle altre imputazioni minori: Vice, a questo proposito, riporta come casi simili e più concreti contro l’Fbi, come la minacciata distruzione di un palazzo del Bureau e il concreto tentato omicidio di un agente, sono stati puniti con rispettivamente un massimo di 42 e 18 mesi di carcere.
Dato a Brown quel che è di Brown, è chiaro che al centro della controversia vi sia quel link alle mail rubate da Anonymous nei server di Stratfor. A questo proposito, è bene ricordare che, nonostante il suo passato coinvolgimento con Anonymous, nessuno imputa a Barrett Brown un ruolo diretto nel raid telematico. Brown non è un hacker, è accusato, tra le altre cose, di aver “concesso l’accesso a dati rubati alla Stratfor Global Intelligence Files, compresi 5mila account di carte di credito e informazioni sui proprietari”. L’accusa è il link, non il furto: per il secondo, Jeremy Hammond ha già ammesso la sua partecipazione e ha patteggiato una pena di 10 anni.
Sul New York Times, il media journalist David Carr ha fatto una connessione tanto semplice quanto preoccupante: i maggiori quotidiani del mondo, compresa la testata newyorkese per cui Carr lavora, hanno – per forza di cose – postato link a contenuti “sottratti” alla segretezza nello svolgere il loro lavoro investigativo. Lo ha fatto ProPublica, lo ha fatto il Guardian e con esse moltissime altre testate che hanno lavorato con i materiali forniti dal whistleblower Edward Snowden. In passato, ad esempio, lo stesso è avvenuto con gli scoop di WikiLeaks ed è una normale prassi giornalistica. Secondo Carr, in questo caso, le autorità stanno ponendo sullo stesso piano il furto vero e proprio dei documenti con il linkarli online. A testimonianza ulteriore di un certo clima di “stretta” contro il giornalismo investigativo che aleggia negli Usa in tempi recenti.
Jennifer Lynch, un avvocato che lavora per la Electronic Frontier Foundation, ha dichiarato al NYTimes, commentando il significato delle accuse: “penso che questa amministrazione stia cercando di perseguitare le fughe di documenti in ogni modo”. Inoltre, la corte ha stabilito che Barrett Brown, dal carcere, non può parlare a riguardo del suo processo con la stampa. Il gag order si applica anche ai suoi legali.
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