Avendo appena speso un semestre al Reuters Institute di Oxford riflettendo sulla professione giornalistica, tre idee hanno dominato i miei pensieri sul futuro della fotografia e dell’informazione: le gallery online potrebbero salvare i fotografi che lavorano con la stampa? Altrimenti, perché avrei scritto un libro, “Photojournalism: A Social Semiotic Approach”, spiegando il valore del fotogiornalismo e come analizzarlo, se questa disciplina è morta? E, se il fotogiornalismo non ha un futuro, da dove arrivano tutte queste immagini?
Ho iniziato il mio semestre analizzando in modo sistematico le gallery online e il fotogiornalismo. Si tratta per lo più di sequenze di foto con didascalie che dovrebbero raccontare una storia in forma visuale e sono uno standard che si può trovare facilmente sulla maggior parte dei portali online di informazione. La mia ricerca su queste gallery è parte di un progetto più ampio che sto conducendo con John Knox della Macquarie University (Australia). Durante il nostro lavoro abbiamo riscontrato come, per lo più, le gallery di foto siano prodotti di livello molto basso e molto ripetitivi, troppo lunghi e di bassa qualità sia da un punto di vista qualitativo che di composizione e molto spesso mostrano immagini fuori fuoco, scattate male e con standard fotografici molto bassi.
Le didascalie che accompagnano le immagini, inoltre, sono spesso senza senso, e non voglio nemmeno entrare nel campo dove questi spazi vengono ceduti a veri e propri spot promozionali e di pubblicità. Eravamo convinti che “advetorial” fosse una brutta parola, ora ci accorgiamo di aver fruito inconsapevolmente un contenuto promozionale solo quando giungiamo alla fine di una gallery fotografica. Il fotogiornalista W. Eugene Smith si rivolterebbe nella tomba. Le gallery online dovrebbero al contrario essere uno spazio dove celebrare la fotografia e i fotografi autori degli scatti, specialmente quando questi sono frutto del lavoro professionale sul campo, in contesti pericolosi per immortalare eventi o questioni. Nelle gallery, si potrebbe dar spazio non a una, ma fino a otto (o più) delle migliori fotografie di un singolo evento per raccontarlo al meglio in modo visuale. Il New York Times, ad esempio, lo fa tutti i giorni (e insisterà su questo punto ancora di più con il nuovo design del suo sito, ndr), perché tutte le altre testate non considerano questa una forma di storytelling da valorizzare?
Giunta la metà del mio semestre a Oxford, ho pubblicato la mia ricerca. Nel testo, esalto le virtù del fotogiornalismo e dei suoi creatori. Come chiunque altro lavori in questo settore, anche i fotografi sono presi dalla sfida di trovare un business model adatto a fronteggiare le sfide di Internet e sono, di conseguenza, caduti vittime del razionalismo economico. Negli ultimi 5 anni, due dei tre fotografi compresi nel mio libro hanno perso i loro lavori full-time presso i giornali per cui lavoravano e sono ora scesi nel campo di battaglia del freelancing. La china è molto più ripida per i fotografi, videomaker e artisti che per chi scrive: l’American Society of News Editors ha evidenziato un calo del 43% nei posti di lavoro “creativi” e dell’immagine nell’editoria periodica tra il 2000 e il 2012. Nel maggio del 2013, il Chicago Sun-Times ha licenziato il suo intero dipartimento fotografico, dove lavoravano 28 persone; in ottobre, l’Atlanta Journal Constitution ha annunciato che avrebbe lasciato a casa un significativo numero dei suoi fotografi e il Times Herlad-Record di new York ha tagliato i suoi ultimi 4 fotografi lo scorso novembre, come riporta il Pew Research Center.
Ma quello che è più preoccupante sono le ragioni dietro a questi tagli radicali: le “nuove tecnologie”, “la situazione economica”, “i social media” e, soprattutto, il fatto che citizen journalist e non-professionisti stanno fornendo alle testate giornalistiche buona parte delle immagini utilizzate insieme agli articoli. Ovviamente, tutto questo può essere comprensibile, data l’enormità di immagini che vengono prodotte e diffuse su Internet. La sola Instagram, ha piu di 150 milioni di utenti che condividono fino a 16 miliardi di scatti. Non sono convinta, pero, che le questioni legali ed etiche sull’utilizzo di queste immagini siano state toccate quanto dovrebbero, come, allo stesso tempo, le sfide che questi scatti rappresentano per le norme giornalistiche di imparzialità.
Quello che sta diventando sempre più evidente è come le immagini provenienti da siti di photosharing come Instagram o simili, popolino sempre più di frequente le gallery dei giornali online, uno spazio che, al contrario, andrebbe riservato ai giornalisti professionisti e a serie di scatti convincenti. Ma niente paura: se tutto quello in cui dovranno confidare i fotografi, quando i giornali saranno solo digitali, saranno gallery di immagini amatoriali, scelte magari da un algoritmo che sostituisce gratuitamente il lavoro di un professionista, allora meglio chiamarsi fuori e guardare altrove, a progetti come MediaStorm. Ho sentito che Internet assume sempre. D’altronde, chiunque può scattare una foto, no?
Photo credits: gentile concessione di Helen Caple
Articolo tradotto dall’originale inglese
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