Secondo lo scrittore marocchino Ben Jelloum “gli immigrati sono poco fotogenici” ma molto fotografati e in pose quasi sempre negative. La loro visibilità è spesso legata a condizioni difficili. L’atteggiamento di diffidenza che i media contribuiscono a costruire con la rappresentazione simbolica della realtà non aiuta a superare i conflitti. Da queste premesse ha preso il via la tavola rotonda “I richiedenti asilo nello specchio dei media” tenutasi all’Università La Sapienza presso il Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale.
C’è innanzitutto, da parte dei giornalisti, una confusione nell’utilizzo dei termini tra richiedenti asilo e rifugiati, si tende a dividere migranti di serie A e di serie B. Quella del richiedente asilo è una figura molto particolare nella nostra società cui spesso dal punto di vista mediatico, non viene dato il giusto spazio e la giusta attenzione, sia in termini qualitativi che quantitativi. Il richiedente asilo è raffigurato come una minaccia, alimentando gli stereotipi di rischi e paure che i media creano nell’immaginario delle nostre società. Si riscontrano in Italia, grossi problemi di rappresentazione sul tema, i giornalisti trovano difficoltà ad attingere ad un patrimonio che potrebbe fornire invece svariati spunti. “Siamo di fronte ad un appiattimento e a una monodimensionalità del modo di rappresentare il fenomeno migratorio” ha affermato Marco Bruno, ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi, che nel suo intervento ha parlato anche di “responsabilità sociale del giornalista”, mettendo al centro l’accuratezza nella scelta dei termini: “Usare l’espressione “tsunami umano” per descrivere la situazione degli sbarchi a Lampedusa, oltre che scorretto, è irresponsabile”.
Al tavolo ha preso parte anche Ejaz Ahmad, giornalista pakistano del portale “Stranieri in Italia” (www.stranieriinitalia.it), che scrive un giornale in lingua urdu: “I pakistani che arrivavano in Italia avevano bisogno di un giornale scritto in urdu per non essere tagliati fuori – e racconta – Dopo l’11 settembre sono stato chiamato a partecipare al programma Porta a Porta per parlare di Islam, volevano che portassi due donne con il burqua ma io ho una moglie italiana e anche femminista! Così alla fine non ci sono andato, a loro serviva solo per alzare gli ascolti e per alimentare lo stereotipo.
Occorre quindi una autoriflessione da parte degli addetti ai lavori, una sorta di analisi critica, e Luca Mattiucci, direttore di “Comunicare il Sociale”, un allegato del Corriere della Sera, individua nuovi canali utili al rapporto tra media e immigrazione: “Bisogna fare una differenziazione tra i vari mezzi di comunicazione. Nei quotidiani troviamo un maggior numero di articoli con l’immigrato visto come criminale che commette un reato e questo si ripercuote anche in tv e nei talk show. Meglio invece la situazione in radio, uno dei canali dove c’è più spazio per l’approfondimento e la riflessione. Il web è il nuovo strumento che integra gli altri e fornisce una visione più completa”.
In conclusione l’intervento di Roberto Natale, presidente della FNSI, ha messo in risalto il giornalismo etico: “L’Ethical Journalism Initiative promuove una campagna per rafforzare la qualità dei media, e dice che il giornalismo etico è il giornalismo pensante. Il giornalista ha bisogno di tempo per pensare. Il servizio pubblico italiano deve assumere un impegno specifico su questa materia. Calabrò ha detto che la nostra tv è una grande tv locale. Non c’è paragone con le altre tv del resto del mondo”.
“Viviamo nell’epoca dell’incertezza” – ha sottolineato Mario Morcellini, Direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale e responsabile scientifico della ricerca – “soprattutto perché la conoscenza di molti fenomeni è scarsa. I media e i professionisti dell’informazione dovrebbero aiutarci a capire meglio i fenomeni del nostro tempo, invece, anziché far luce, contribuiscono a rendere tutto meno chiaro e comprensibile. Bisogna riconoscerlo: l’incertezza diminuisce l’intelligenza”.
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