Problemi dell’Informazione, Nr. 1, aprile 2006
Nuovi ombudsman al New York Times e al Washington Post
In Italia non ce ne sono: dopo due esperienze fallimentari presso Il Messaggero e La Repubblica negli anni Ottanta, l’idea è stata abbandonata. Pure in Germania non se ne trovano, mentre in Francia ce n’è uno, presso Le Monde. Sono però numerosi in Svizzera, in Inghilterra e in Nord Europa – soprattutto in Svezia, che è il paese natale di questa figura. Negli Stati Uniti, su circa 1500 quotidiani, solo una quarantina ne hanno uno, ma quei pochi si fanno sentire: stiamo parlando degli ombudsman dei giornali.
Il loro compito è quello di ricevere e valutare le lamentele dei lettori sull’accuratezza, l’imparzialità, l’equilibrio e il buon gusto delle notizie. L’ombudsman, conosciuto anche con il nome di «Mediatore», «Avvocato dei lettori» o «Difensore civico», raccomanda al giornale rimedi appropriati e risponde ai lettori per correggere o chiarire gli articoli contestati. Egli funge da persona di contatto, superando la credenza comune che i media siano distaccati, arroganti o insensibili nei riguardi del pubblico e generalmente inaccessibili al cittadino medio: negli Stati Uniti, oltre a trattare con lettori arrabbiati, sono anche giornalisti che una volta alla settimana trattano su una rubrica temi legati al giornalismo o all’operato proprio giornale.
La serie di scandali che ha recentemente investito il giornalismo americano ha rafforzato questa figura professionale. Due di loro spiccano per importanza e per influenza: in entrambi i casi, quello del New York Times e del Washington Post, recentemente c’è stato un cambio della guardia.
Daniel Okrent e il New York Times
Presso il New York Times Daniel Okrent è stato sostituito da Byron Calame, che fin da subito si è trovato in una situazione piuttosto scomoda dovendo trattare il cosiddetto «CIAgate», che vede coinvolta una giornalista del Times, Judith Miller. All’inizio della vicenda la giornalista fu festeggiata come nuova icona del giornalismo americano per essersi immolata per la difesa del segreto redazionale, finendo in carcere per ben 85 giorni. In seguito è però emerso che Judith Miller non è andata in prigione per difendere la verità, anzi. Ci è finita per difendere l’operato di uno spin doctor, un esperto di comunicazione al servizio del governo americano, che l’ha strumentalizzata – e non era la prima volta – per i propri fini passandole scoop che in realtà erano vere e proprie patacche. Un duro colpo per la credibilità del New York Times, che sin dall’inizio si era schierato con la propria giornalista. È toccato dunque anche a Calame spiegare la situazione ai propri lettori, cercando di chiarire le dinamiche della vicenda, sollevando scomodi interrogativi sulla gestione dello scandalo da parte dei vertici del giornale e cercando di far luce sull’accaduto.
Fu un altro noto scandalo a spingere il New York Times ad appuntare un ombudsman, appena 2 anni prima: quello delle falsificazioni in serie di Jayson Blair, dopo il quale presso il prestigioso quotidiano è stato promosso un ampio dibattito sull’etica giornalistica e la responsabilità sociale dei media. Una delle conseguenze di questa dolorosa introspezione fu appunto che nel dicembre del 2003, dopo che per 36 anni si era rifiutato di farlo, il New York Times assunse il suo primo ombudsman: Daniel Okrent.
Okrent esce dai suoi 18 mesi di mandato dopo aver trattato nelle sue rubriche sia temi spinosi – ad esempio il modo in cui il giornale ha trattato il conflitto israelo-palestinese o la presenza in Iraq delle armi di distruzione di massa – sia argomenti puramente esplicativi, ad esempio il modo in cui è costruita la prima pagina del giornale, l’uso dei sondaggi o quello delle fonti anonime. Il successo di Okrent non dipende solo dalle sue capacità individuali, ma anche dal fatto che il posto di ombudsman al New York Times è stato creato in modo esemplare, garantendogli grande visibilità, accessibilità e, soprattutto, la massima autonomia – caratteristiche che permettono ad un ombudsman di essere davvero efficace.
Quando il 7 dicembre 2003 si presenta al proprio pubblico con l’articolo «An Advocate for Times Readers Introduces Himself» («Un avvocato per i lettori del Time si presenta») egli sottolinea la sua autonomia dai vertici della testata: «Se fossi in corsa per una rielezione dopo il mio mandato, avreste tutte le ragioni per dubitare della mia indipendenza; di conseguenza il 29 maggio 2005, per mutuo accordo con il direttore Bill Keller, il mio nome sparirà dalla cima di questa rubrica e dal libro paga del Times.» E così è successo.
Anche per quanto concerne la sua rubrica, la parte più pubblica del suo lavoro, Okrent gode della massima libertà: il direttore Bill Keller, afferma infatti nell’edizione del 27 ottobre 2003 che «né lui né altri hanno alcun diritto di rivedere i commenti di Okrent prima che essi siano pubblicati.»
L’importanza di questa autonomia è stata pure sottolineata dal suo successore Byron Calame quando il 5 giugno 2005 si è presentato al proprio pubblico affermando che è stata appunto la «vasta indipendenza che il Times dà ai propri ombudsman a mitigare i dubbi sul concetto e la figura del mediatore» e promettendo al proprio pubblico «ancora più trasparenza.»
Getler e il Washington Post
Ad ottobre è pure scaduto il mandato di Michael Getler, che è stato l’ombudsman del Washington Post per ben 5 anni. È stato sostituito da Deborah Howell, una giornalista dalla grande esperienza che l’ha portata ad essere scelta come quarta donna che, negli ultimi 35 anni, ha svolto questa funzione.
Nell’ultima puntata della sua rubrica, Getler ha ricordato gli esordi del suo lavoro: «quando iniziai nel settembre del 2000 era il principio del punto morto di un’elezione presidenziale, una lotta storica che sarebbe durata 36 giorni e il cui esito sarebbe stato deciso solo dalla Corte Suprema. Meno di un anno dopo arrivò l’11 settembre. E poi le guerre in Afghanistan e in Iraq.» Questi eventi hanno dominato l’operato di Getler che, nell’arco di questi 5 anni, ha dovuto spiegare ai lettori le scelte editoriali del noto giornale americano: come mai il Post ha pubblicato una certa notizia in prima pagina e non un’altra? Come è nata la decisione di pubblicare una determinata fotografia? Quali sono le giustificazioni del Post per la scarsa capacità di porre domande critiche nel periodo che ha preceduto la guerra? Durante il suo mandato Getler ha dovuto fare proprio questo: rispondere a domande, a volte spinose, sollevate da lettori spesso in disaccordo con l’operato del loro giornale.
Vi fu ad esempio la fotografia pubblicata nel maggio del 2004, in prima pagina, che vedeva una soldatessa americana tenere al guinzaglio un prigioniero ad Abu Ghraib. Quell’immagine, ottenuta in esclusiva, fece il giro del mondo e le reazioni dei lettori del Post furono molte e discordanti: Getler rispose ai lettori in un articolo, pubblicamente, spiegando la scelta fatta dal giornale. «Dopo la pubblicazione di quella foto, molti mi chiamarono dicendo, essenzialmente, che ne avevano abbastanza: ‘Stiamo cercando di far fronte a cosa è accaduto,’ disse uno, ‘e voi buttate ulteriore benzina sul fuoco sotto forma di nuove fotografie.’ ‘Quanta altra vergogna dobbiamo ancora provare?’ chiese un altro ‘Abbiamo capito.’ Io non sono d’accordo: la realtà della guerra in tutti i suoi aspetti necessita di essere raccontata e fotografata. Questa è la cosa da fare più patriottica e necessaria in una democrazia. »
Questo esempio mostra come il pubblico possa beneficiare di questa figura, poiché ottiene delle risposte e gli sono spiegate le procedure interne al giornale – che sono processi spesso misteriosi e quindi sospetti per molti lettori. Il giornale a sua volta guadagna dalla presenza di un ombudsman perché gli conferisce un’immagine più responsabile verso l’esterno, il che si traduce in una maggiore fedeltà dei lettori: diversi studi recenti – tra i quali il libro del noto esperto Philip Meyer The Vanishing Newspaper* – hanno infatti provato che la credibilità di un giornale e il suo successo commerciale sono correlati.
Il Post accoglie ora il suo nuovo ombudsman, Deborah Howell, la quarta donna della sua storia, continuando una consuetudine lunga ormai 35 anni e promuovendo, secondo la sua migliore tradizione, l’idea di ombudsman come avvocato dei lettori visibile, accessibile, indipendente e critico.
L’ombudsman della stampa: una figura professionale in ascesa?
Neil Nemeth** nella conclusione del suo libro Gli ombudsman della stampa in Nord America (News Ombudsmen in North America) afferma che, nonostante negli ultimi anni non ci sia stata un’evoluzione nel numero degli ombudsman americani, ci sono stati grandi progressi nel modo in cui essi lavorano e nell’impatto che hanno. Il lavoro di Okrent e Getler è un esempio di questa evoluzione.
Chi continua ad opporsi all’idea di assumere un ombudsman, menziona principalmente due ragioni. Una è economica: in un periodo in cui bisogna allocare le risorse in modo oculato, può costare troppo assumere una persona che si occupi di queste cose. L’altra è di principio: chi si oppone afferma infatti che sono i giornalisti e i direttori stessi, e non una terza persona, a dover essere direttamente responsabili del loro operato di fronte ai lettori. Ma non sempre i giornalisti o i direttori hanno il tempo, l’attitudine e l’occasione per spiegare i loro comportamenti ai lettori. E nasce il dubbio, Nemeth in testa, che a volte dietro al rifiuto ci siano ragioni emotive come l’insicurezza, un pizzico di arroganza e la paura di essere criticati – soprattutto sulle pagine del proprio giornale.
* Philip Meyer, The Vanishing Newspaper: Saving Journalism in the Information Age, Columbia: University of Missouri Press, 2005
**Neil Nemeth, News Ombudsmen in North America, Westport, Connecticut: Praeger, 2003