Soprprendenti sono alcuni dei tratti comuni rilevati tra delle culture giornalistiche: ad esempio, fatta eccezione per la Bulgaria, in tutti i Paesi più di due terzi dei giornalisti intervistati ritengono “molto” o “estremamente” importante una cronaca imparziale. Inoltre, circa il 60% dei giornalisti nella maggior parte dei Paesi si dichiara favorevole alla funzione di “watchdog” (cane da guardia del sistema). In cinque Paesi addirittura più dell’80% vuole assumere funzioni di controllo nei confronti del proprio governo. In Romania solo meno della metà dei giornalisti lo considera un proprio compito. Esiste un ampio consenso anche riguardo al fatto che i giornalisti dovrebbero mettere a disposizione “informazioni interessanti” in loro possesso, e avere un mandato informativo di tipo politico. Tanti consensi convergenti fanno capire come il giornalismo stia diventando in certo qual modo sempre più professionale e “globalizzato”.
Tuttavia, altre risposte permettono di mettere in luce anche vistose differenze. Secondo le stime dei singoli Paesi, in Svizzera e Germania, ma anche in Spagna, Bulgaria, Brasile e Australia, solo meno di un quarto dei giornalisti partecipa alle decisioni riguardanti il programma politico. In Russia è il 35%, in Turchia e Uganda addirittura più della metà. In Svizzera e Germania a sostenere la politica di governo è di volta in volta fra il 10 e il 20% degli intervistati; in Russia è appena il 30%, in Uganda la percentuale sale rapidamente al 78%. Una sintesi dei risultati mostra che le culture giornalistiche nei Paesi europei presi in esame, che si trovino in Oriente o in Occidente, come pure Israele o Australia presentano dei tratti comuni, mentre gli altri paesi oggetto di studio – Brasile, Indonesia, Russia, Turchia e Uganda –sono molto distaccati rispetto a questa tendenza.
In ogni Paese sono stati intervistati 100 giornalisti provenienti da venti redazioni diverse – di volta in volta due capi redattori e tre giornalisti. In tutti i Paesi partecipanti è stata effettuata inoltre un’analisi delle imprese mediatiche e delle condizioni sociali in cui operano le redazioni.
Wolfgang Donsbach (Università Tecnica di Dresda) ha completato la presentazione con i primi dati di un lavoro di ricerca che pone a confronto il giornalismo tedesco, americano, inglese e italiano. Lo studio viene ripetuto ogni 15 anni. In questo modo sarà possibile per la prima volta uno studio trasversale e prolungato nel tempo, che permetterà per esempio di accertare se le culture giornalistiche convergono oppure si sviluppano in maniera indipendente. Tuttavia, finora sono disponibili unicamente i risultati provenienti dalla Germania: invece del 30% attualmente solo il 18% dei giornalisti di questo Paese è interessato ad assumere un ruolo di controllo sulle decisioni politiche. Solo il 9% vorrebbe influenzare”l’opinione pubblica”, in confronto al 16% di 15 anni fa. Invece il numero di giornalisti che con il loro lavoro si prefigge innanzitutto di ampliare al massimo il numero di lettori, è aumentato in maniera significativa. Almeno nella consapevolezza dei giornalisti anche la ricerca ha guadagnato importanza: il 52% degli intervistati (invece del precedente 42%) concorda sul fatto che “la buona cronaca non può limitarsi ad accontentare le due parti”. Anche se nelle redazioni sempre più ridotte, la realtà è proprio questa.
Resta il fatto che in ogni caso dati del genere vanno presi con una certa prudenza. Chi ha una certa esperienza sa che i ricercatori sono ostinati e che al di là di ogni lodevole sforzo molto difficilmente si impegnano per raggiungere elevati standard comuni di indagine. C’è inoltre il rischio che i giornalisti forniscano risposte “scontate ”, che hanno poco in comune con il loro effettivo lavoro nelle redazioni e con la realtà del loro Paese. Così, ad esempio, il 57% dei giornalisti russi crede di esercitare funzioni di watchdog nei confronti del proprio governo; in Uganda, Paese che parimenti alla Russia non è esattamente noto per la sua libertà di stampa, ci crede addirittura l’87%.
Nel frattempo, anche la disponibilità a rispondere a tali inchieste è diventata un problema. In passato i ricercatori potevano aspettarsi sulla disponibilità di più della metà dei destinatari . Oggi, secondo i resoconti di diversi ricercatori di Montreal, spesso si arriva solo al 20%. Tuttavia ciò ha certamente a che vedere anche con il fatto che i professori mandano sempre più spesso i loro studenti “sul campo” per raccogliere dati con la scusa del lavoro di tesi. Così le redazioni vengono bombardate in maniera crescente da questionari, spesso mal preparati che rivelano scarse conoscenze in materia. Il record nel ritardare la risposta è attualmente detenuto da due capi redattori della televisione svizzera: prima di rispondere al questionario si sono lasciati pregare dai ricercatori zurighesi per ben sei mesi.