2,6 terabyte sul giornalismo investigativo oggi

4 Aprile 2016 • Digitale, In evidenza • by

http://panamapapers.sueddeutsche.de/

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L’inchiesta Panama Papers, pubblicata ieri dalla Süddeutsche Zeitung in collaborazione con l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), è destinata a segnare un punto di svolta per il giornalismo contemporaneo. Per via del suo impatto e la portata dei suoi contenuti, è inevitabile che questo scoop, come già quelli di WikiLeaks di sei anni fa e lo scandalo NSA del 2013, rimarrà nell’immaginario collettivo dell’informazione, diventando uno studio di caso irrinunciabile per capire in che direzione sta andando il giornalismo investigativo in questa fase storica.

Questo avverrà anche al di là dei contenuti stessi dell’inchiesta, su cui ha lavorato un team di oltre 400 giornalisti in tutto il mondo, ma anche per via delle modalità in cui i Panama Papers sono arrivati in superficie. Di sicuro questo nuovo progetto è in continuità con il modello collaborativo-crossborder che negli ultimi anni ha consentito la realizzazione di iniziative importanti come Swiss Leaks, Luxembourg Leaks e già, prima, il lavoro nato da WikiLeaks e proseguito con le testate di mezzo mondo attorno ai file del Cablegate forniti da Chelsea Manning. Eppure, i Panama Papers sembrano spingere l’asticella ancora più in alto. Ecco come:

Schermata 2016-04-04 alle 11.03.001) La centralità del whistleblowing e della crittografia
Dietro alle rivelazioni e ai documenti vi è una fonte confidenziale, un whistleblower la cui identità è ovviamente segreta e di cui la Süddeutsche Zeitung ha scritto “non ha voluto né un compenso economico, né altro in cambio, solo la garanzia di alcune misure di sicurezza”. Inoltre, scrive sempre il giornale di Monaco, le comunicazioni e l’invio dei file è avvenuto grazie alla crittografia, irrinunciabile per proteggere l’identità della fonte. Interessante notare come il team investigativo del quotidiano tedesco si presenti su Twitter segnalando la propria chiave pubblica di PGP per sollecitare comunicazioni protette e possibili leak (immagine qui a sx, nda).

Saper maneggiare gli strumenti giusti e porsi in modo proattivo in questo senso è il primo passo per entrare in contatto con possibili whistleblower. Non è chiaro se i primi contatti siano avvenuti proprio grazie a PGP, ma è innegabile si tratti di una best practice irrinunciabile in tempi di sorveglianza digitale pervasiva.

2) Quanto sono grandi 2,6 terabyte? Troppo per una singola testata
Come è stato rivelato, il leak comprendere oltre 11,5 milioni di file, per un totale complessivo di 2,6 terabyte di materiale. Una quantità enorme ed esponenzialmente più grande persino di alcuni dei maggiori casi esplosi in anni recenti. A questo proposito, la Süddeutsche Zeitung ha realizzato un’infografica che mette le dimensioni dei leak in prospettiva:

Siamo davvero di fronte alla possibile maggiore fuga di notizie della storia del giornalismo, una situazione che impone di affrontare i materiali con un approccio collaborativo e internazionale, al fine di suddividere il lavoro e far risaltare le sfumature nazionali contenuti nel leak. Non a caso la Süddeutsche Zeitung ha deciso di coinvolgere l’ICIJ, di fatto scorporando un’esclusiva tra diversi media partner, per avere quante più risorse possibili per affrontare le ricerche, le verifiche e la pubblicazione dello scoop.

L’inchiesta è stata quindi seguita da oltre 400 giornalisti appartenenti a 100 testate di 80 paesi per un anno. In Italia, vi ha lavorato L’Espresso, in Svizzera Le Matin e Sonntagszeitung. Almeno dal 2010, quando WikiLeaks mise allo stesso tavolo alcune delle maggiori testate del pianeta per i file sulle guerre in Afghanistan e Iraq, questo approccio ha fatto segnare alcuni tra i maggiori risultati investigativi recenti. Ed è inevitabile che il futuro vada sempre di più in questa direzione.

3) Data Journalism e altri ibridi
Il team investigativo della Süddeutsche Zeitung ha raccontato nel dettaglio anche il modo in cui è stato coordinato il lavoro sui file:
Schermata 2016-04-04 alle 11.19.49Dalla breve descrizione emerge chiaramente come diverse competenze, soprattutto informatiche, siano in gioco di fronte a un’indagine di questo tipo. Come ha insegnato il data journalism negli ultimi dieci anni e il CAR prima, il giornalismo investigativo applicato a materiali digitali passa dall’ibridazione di diversi campi e culture: da quella muckraker classicamente intesa a quella hacker, passando per la statistica e la data visualization.

Anche i Panama Papers sono a tutti gli effetti un’inchiesta data journalism e, alla luce della la sua vastità in termini di materiali coinvolti, non potrà non segnare nuovi standard procedurali. Come giustamente fa notare Andrea Nelson Mauro nel suo post su Medium, resta però ancora da capire come bilanciare al meglio l’approccio open data – condividere l’intera cache di documenti con i lettori? – al necessario scrutinio del giornalismo. In questo senso, la domanda resta ancora senza risposta, date le importanti implicazioni a livello di privacy che i Panama Papers portano con sé.

4) Succederà di nuovo
Il numero sempre crescente di leak di vasta portata, come già i Drone Papers pubblicati qualche mese fa da The Intercept, per uscire dall’alveo dell’ICIJ, dimostra come le tecnologie digitali abbiano, su un piano pratico, facilitato e di molto la pratica del whistleblowing, per quanto riguarda l’inoltro di grandi quantitativi di file e informazioni. Data l’esponenziale digitalizzazione, l’oceano di informazioni digitali disponibili e la frequenza di casi di questo tipo, è semplicemente inevitabile che nuovi leak di tale portata appariranno in futuro.

Per le redazioni, è tempo quindi di essere pronti ad accoglierli al meglio, come fatto dalla Süddeutsche Zeitung in questo caso. Con una consapevolezza da tenere bene a mente: il primo destinatario della soffiata potrebbe non essere un giornale a tutti gli effetti, ma un’entità meno istituzionalizzata, come, appunto WikiLeaks – o una delle decide di piattaforme di whistleblowing disponibili – o, di nuovo, l’ICIJ. A quel punto, la sfida per le testate sarà quella di sedersi al tavolo e collaborare con le proprie risorse disponibili: il networked journalism si è compiuto dieci anni fa. Accettato questo principio, nonostante la crisi economica che attanaglia le testate tradizionali, il giornalismo investigativo è nel mezzo di un momento di grande fermento.

Leggi anche: Lo chiamano giornalismo d’inchiesta

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