Come si fa data journalism in Cina

14 Gennaio 2019 • Digitale, Più recenti • by

“Painting by LIU Wei 刘韡 (劉韡): Truth Dimension No 7, 2013 (oil on canvas)” / Long March Space 长征空间 (長征空間) / Art Basel Hong Kong 2013 – See-ming Lee / Flickr CC / BY-NC 2.0

Far appassionare a una storia, coinvolgere i lettori con l’interattività, video e infografiche: in tutto il mondo, così come in Cina, il data journalism racconta la realtà partendo dai dati, presentandoli nella maniera più chiara e intuitiva. Il processo di costruzione dei contenuti data-driven è per natura lungo, complicato e multidisciplinare. Il reporter che lavora sui dati, ad esempio, deve avere una solida conoscenza digitale, visiva e statistica, ma oltre alle skills giornalistiche classiche deve anche saper accedere ai dati grezzi e essere pronto a indicare chiaramente nell’articolo la sua metodologia o il codice utilizzato. Infine, è anche importante saper uniformarsi alle tendenze globali sulla trasparenza e sull’accesso alle informazioni governative.

Da diversi anni i progetti di data journalism sono una normalità in Europa e in Nord America, dove è radicata una cultura democratica più forte basata anche sulla condivisione dei dati, la trasparenza e sull’importanza del giornalismo investigativo per la società. In Cina, invece, il data journalism esiste solo a partire dal 2011 con il lancio, da parte di Sohu – compagnia mediatica nazionale con un fatturato di circa due miliardi di dollari, – della prima sezione dedicata al giornalismo dei dati, “Matrix”. Dell’evoluzione del data journalim cinese scrivono ora i ricercatori Shuling Zhang e Jieyun Feng della University of International Business and Economics di Pechino, in un nuovo articolo pubblicato sul journal Journalism Studies. Per il loro studio, i due autori hanno analizzato 290 articoli di data journalism e intervistato 20 reporter specializzati cinesi nel corso del 2017.

Nella ricerca sono stati confrontati sei siti web di importanti aziende nazionali mediatiche: Xinhuanet e The Beijing News, due agenzie ufficiali rispettivamente del Governo e del Partito comunista; The Paper e Caixin, due testate digital più commerciali e attualmente meno influenzate dallo Stato; e Sohu e Sina, due grandi portali leader del settore online. Sono interessanti i risultati relativi alle fonti di dati utilizzate dalle testate cinesi. Tra tutti gli articoli analizzati, circa il 60% presentava due o più fonti di dati, il 32% solo una, mentre un 7% non ne menziona alcuna. In particolare, i due media tradizionali, The Beijing News e Xinhuanet, sebbene siano organi di stampa di fatto non autonomi, sono paradossalmente quelli a utilizzare nei loro reportage più fonti multiple, rispettivamente nell’80 e nel 60% dei casi. Un dato sorprendente, se paragonato ai due media commerciali, The Paper e Caixin, che, seppur meno vincolati dal Partito centrale e molto più liberi, tendono invece a citare una singola fonte nel 40% dei casi. Differiscono invece i due portali internet: se Sohu ha utilizzato fonti multiple per due terzi degli articoli, la metà di quelli di Sina ne ha riportata invece solo una.

Dalla ricerca emerge anche chiaramente la dipendenza del data journalism cinese dai soli open-data già “rilasciati”. Nello specifico, circa il 50% delle fonti degli articoli analizzati proveniva da organizzazioni non governative, come istituti di ricerca a livello nazionale: una conseguenza della facilità nel reperire tali fonti e dell’accesso estremamente limitato agli altri dati governativi. Solo il 25% degli articoli ha citato documenti resi disponibili da agenzie nazionali, mentre sono ancora limitati i dati ottenuti dalle compagnie private, che si fermano solo all’11%. Beijing News e Xinhuanet – i due media tradizionali governativi – hanno fatto un maggior affidamento sui dati propri, ottenuti tramite sondaggi degli utenti oppure dalla costituzione di propri database. In particolare, Xinhuanet beneficia dell’affiliazione con Xinhua News Agency, la più influente agenzia di stampa del Governo cinese, conosciuta in Italia con il nome di Agenzia Nuova Cina – e spicca con un 28% di utilizzo di dati auto-generati.

Le differenze nei dati sono presenti anche a livello visivo: solamente il 17% degli articoli presenta le evoluzioni dei dati disponibili nel tempo, un 6% riporta connessioni tra di essi e appena l’1% appena include elementi statistici interattivi, perché servono avanzati strumenti tecnologi e alta formazione nelle redazioni per creare queste animazioni. La ricerca ha anche evidenziato come in tutti i prodotti analizzati non ci fossero collegamenti diretti ai database originali o spiegazioni sulla metodologia utilizzata: a tal proposito, gli autori hanno notato come il movimento cinese degli open data non si stia sviluppando verso un’ottica di utilità sociale. La compatibilità con il mercato cinese risulterebbe poi fragile: il 21% degli intervistati ha affermato come gli investimenti nel settore non avessero raggiunto un rendimento economico sufficiente. Il 65% dei reporter interpellati ha però menzionato i vantaggi offerti dal giornalismo dei dati, come il possibile e notevole aumento della qualità dell’informazione fornita. I professionisti concordano anche nel miglioramento visivo dei loro articoli, grazie a nuovi elementi di layout che ne facilitano la comprensione e rendono le storie più interessanti agli occhi del lettore.

Lo studio rivela anche come i reporter cinesi siano consapevoli degli standard professionali sul trattamento dei dati, sulle fonti diversificate e sullo sviluppo di una solida metodologia: nonostante ciò, l’adesione alle norme del giornalismo è minore rispetto a quella dei colleghi occidentali. Innanzitutto, l’accesso limitato per i giornalisti cinesi ai dati rimane un forte interrogativo, e anche la qualità di questi spesso non è attendibile: molti dati del governo rimangono inaccessibili e tutt’ora non esiste una piattaforma online nazionale dedicata. Anche le province cinesi, seppur dispongano di diversi portali, non permettono lo scambio e la condivisone dei dati a causa di questioni legali, tecnologiche e politiche. Per i cronisti cinesi, inoltre, si denota ancora una mancanza di preparazione: molti presentano un background nel settore cartaceo o televisivo, e risulta impegnativo per loro affrontare il mondo contemporaneo del digitale. Serve una formazione di almeno due anni per padroneggiare i software del settore e spesso vi è scarsità di risorse finanziarie, tecniche o legali. Anche il tempo è un fattore determinante, date le pressioni lavorative del mercato. Normalmente due terzi dei team investigati produce da uno a tre articoli a settimana, ma una tale qualità richiede un periodo di sviluppo di un mese, con un intenso lavoro di squadra tra giornalisti e grafici.

Anche la discrepanza dal pubblico cinese è piuttosto forte: chi legge gli articoli di data journalism rientra di norma in un ristretto gruppo di accademici, laureati e specialisti del settore – una piccola fetta del mercato totale cinese. Per comprendere poi al meglio lo scenario in cui operano i data journalist cinesi, bisogna ricordare il pesante livello di censura vigente in Cina, dove solo certi media selezionati, insieme ai grandi siti web nazionali, possiedono una licenza rilasciata dal governo per produrre e pubblicare notizie. Questi portali sono autorizzati a scrivere in autonomia solo per le sezioni di sport, tecnologia e intrattenimento, mentre le notizie politiche sono create dai mezzi ufficiali di informazione e poi inviate alle organizzazioni mediatiche. Anche l’accesso ai big data – informazioni digitali sulle scelte e preferenze degli utenti – risulta essere in mano a influenti società di telecomunicazione e giganti dell’e-commerce. In accordo con il potere esecutivo, essi ne determinano il grado di apertura verso le organizzazioni mediatiche, limitando le possibilità di copertura per progetti di data journalism.

Ad oggi il futuro del data journalism in Cina rimane incerto, a causa di vari fattori: difficoltà strutturali e politiche, perdite economiche, difficoltà a reperire dati, credibilità, il controllo sull’accesso alle informazioni nelle mani di poche compagnie private e un gruppo limitato di lettori. Prevale la visione culturale cinese, storicamente diversa da quella occidentale: i media sono da sempre legati al potere dell’assetto statale e sono presenti forti limitazioni per il giornalismo politico ed investigativo. Non bisogna poi dimenticare il Great Firewall, l’imponente censura governativa cinese dei dati provenienti da Paesi stranieri: una barriera ideologica e tecnologica che azzera gli scambi di informazioni fuori dai confini nazionali.

La ricerca completa “A Step Forward? Exploring the diffusion of data journalism as journalistic innovations in China” è disponibile qui

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