Una filter bubble è uno stato di isolamento intellettuale o ideologico che può derivare da algoritmi che ci forniscono informazioni con cui siamo d’accordo, sulla base del nostro comportamento online e della nostra cronologia di navigazione e di ricerca. È un termine piuttosto popolare che è stato coniato dall’attivista Eli Pariser, che ci ha dedicato un libro. Tuttavia, la ricerca accademica sull’argomento racconta una storia diversa sulle filter bubble.
Cos’è una filter bubble? È la stessa cosa di una echo chamber?
Le persone usano servizi come Facebook, Twitter e Apple News per ottenere le loro notizie e alcune delle notizie che le persone vedono quando usano queste piattaforme vengono selezionate automaticamente da algoritmi. Gli algoritmi effettuano questa selezione utilizzando i dati raccolti dalle piattaforme, sulla base del nostro utilizzo passato, e anche sui dati che cediamo volontariamente a questi servizi. Naturalmente, il timore è che questo possa rafforzare i modelli di consumo esistenti.
Personalmente penso che le echo chamber e le filter bubble siano due cose leggermente diverse. Una echo chamber è ciò che potrebbe accadere quando siamo sovraesposti a notizie che ci piacciono o con cui siamo già d’accordo, potenzialmente distorcendo la nostra percezione della realtà perché vediamo troppo di una parte, non abbastanza dell’altra, e cominciamo a pensare che forse la realtà sia veramente così.
Le filter bubble, invece, descrivono una situazione in cui le notizie che non ci piacciono o con cui non siamo d’accordo vengono automaticamente filtrate e questo potrebbe avere l’effetto di restringere ciò che conosciamo. Questa distinzione è importante perché le echo chamber potrebbero essere il risultato di un filtraggio oppure il risultato di altri processi, ma le filter bubble devono essere necessariamente il risultato di un filtraggio algoritmico.
Perché il concetto di filter bubble è così popolare?
La filter bubble è una metafora molto potente. Anche i meccanismi che ho descritto poco fa sembrano abbastanza plausibili. Tutti possono capirli e in un certo senso hanno un significato chiaro. L’idea delle filter bubble è molto prominente e ha avuto un impatto nel modo in cui comprendiamo la politica fin dall’elezione di Donald Trump.
Un articolo pubblicato dalla rivista Wired nel 2016 sosteneva che le filter bubble stessero distruggendo la democrazia, il che è un’affermazione piuttosto audace. Nel 2017 Bill Gates ha detto invece che le filter bubble sono un serio problema per le notizie. Entrambe le affermazioni mostrano il tipo di misura in cui queste idee hanno preso piede da due fonti che non sono esattamente scettiche nei confronti della tecnologia. L’esistenza delle filter bubble è ora ampiamente accettata in molti ambienti.
Come arrivano le notizie alle persone?
È utile cominciare dall’inizio. Quindi forse il punto di partenza più semplice è chiedere se le persone stanno effettivamente usando Internet per ottenere le notizie, e penso che la risposta a questa domanda sia un chiaro sì. La maggior parte dei dati che ho raccolto con un team di persone del Reuters Institute provengono dal Digital News Report, il nostro sondaggio annuale sull’uso delle notizie in 38 diversi mercati in cinque continenti, soprattutto in Europa. Circa 75mila persone hanno risposto al sondaggio. Il sondaggio è stato condotto da YouGov, ma il questionario è stato ideato da noi.
Quando abbiamo chiesto alle persone quale fosse la loro principale fonte di notizie, circa lo stesso numero di persone ha risposto online e televisione. In alcuni Paesi, la televisione è leggermente in vantaggio. In alcuni Paesi, l’online è leggermente più avanti. Ma, in generale, vediamo uno schema molto simile, con online e TV molto più avanti rispetto alla stampa e alla radio. Vediamo anche delle differenze quando guardiamo le fasce d’età. È più probabile che la TV sia la principale fonte di notizie per le persone sopra i 45 anni. Le persone al di sotto di questa età hanno invece più probabilità di ricevere le notizie online.
Abbiamo poi monitorato l’uso dei social media per le notizie in diversi paesi a partire dal 2013 circa, riscontrando come, dal 2013 al 2016 circa, vi sia stata una crescita costante nell’uso dei social per le notizie: la percentuale di chi ha dichiarato di utilizzarli ogni settimana è passata da circa il 25% nel 2013 a oltre il 50% nel 2016, ma le cifre si sono appiattite negli ultimi tre anni. Se scaviamo un po’ più a fondo e guardiamo alle singole piattaforme, possiamo vedere che nella maggior parte dei paesi Facebook è la piattaforma dominante per l’utilizzo delle notizie.
L’utilizzo di Facebook per le notizie riguarda circa il 35% della popolazione nazionale nei paesi in cui abbiamo dati che risalgono fino al 2014. Abbiamo visto una leggera diminuzione solo tra il 2016 e il 2018. Nello stesso periodo, abbiamo visto però altre piattaforme, come WhatsApp, diventare sempre più importanti per l’utilizzo delle notizie. Si tratta di servizi molto diversi tra loro, ma sono raggruppati comunque nella categoria dei social media. L’utilizzo di WhatsApp per le notizie è cresciuto da circa il 10% al 16% negli ultimi cinque anni e Instagram ha visto una crescita simile.
Quali altri algoritmi influenzano il consumo di notizie?
Anche i motori di ricerca, la posta elettronica, le applicazioni mobile e gli aggregatori si affidano in qualche modo agli algoritmi per fornire notizie alle persone. Quando chiediamo alle persone qual è il modo principale in cui ottengono notizie online, circa un terzo ci dice che è andando direttamente ai siti web e alle applicazioni dei fornitori di notizie come BBC News o The Guardian nel Regno Unito.
Gli altri due terzi dicono che il loro modo principale di ottenere notizie è quello che noi chiamiamo “side door”, che include servizi come search, social, ecc. e alcuni di questi servizi si basano su algoritmi in varia misura. Quindi, quando si tratta di filter bubble, è chiaro che il potenziale per essere preoccupati sussiste. Ovviamente gli algoritmi e i servizi basati su algoritmi sono molto importanti, e molte persone li usano per ottenere notizie online.
Come funziona la personalizzazione?
Possiamo distinguere tra la personalizzazione auto-selezionata e quella pre-selezionata. La personalizzazione auto-selezionata si riferisce alle personalizzazioni che facciamo volontariamente a noi stessi, e questo è particolarmente importante quando si tratta di ricevere notizie. Le persone hanno sempre preso decisioni per personalizzare il loro uso delle notizie. Decidono quali giornali comprare, quali canali televisivi guardare e, allo stesso tempo, quali evitare.
Gli accademici la chiamano esposizione selettiva. Sappiamo che è influenzata da una serie di cose diverse, come il livello di interesse delle persone per le notizie, le loro convinzioni politiche e così via e questo è qualcosa che è sempre stato più o meno accettato. La personalizzazione pre-selezionata è invece la personalizzazione che viene fatta alle persone da terzi, a volte tramite algoritmi, a volte a loro insaputa. E questo si ricollega direttamente all’idea delle filter bubble, perché gli algoritmi stanno probabilmente facendo delle scelte per conto di persone che potrebbero non esserne consapevoli.
La ragione per cui questa distinzione è particolarmente importante è che dovremmo evitare di confrontare la personalizzazione pre-selezionata e i suoi effetti con un mondo in cui le persone non fanno alcun tipo di personalizzazione a se stesse. Non possiamo, ad esempio, supporre che offline, o quando le persone auto-selezionano le notizie online, lo facciano in modo del tutto casuale. Le persone sono sempre impegnate in una certa misura nella personalizzazione e se vogliamo capire la portata della personalizzazione pre-selezionata, dobbiamo confrontarla con l’alternativa realistica, non con ideali ipotetici.
È importante in particolare non romanzare la natura dell’uso delle notizie offline per molte persone. Uno dei primi studi che abbiamo fatto in questo settore ha riguardato il modo in cui le persone auto-selezionano le notizie online rispetto a quelle offline. Abbiamo esaminato la misura in cui i lettori di diverse testate giornalistiche nel Regno Unito si sovrapponevano l’uno con l’altro. Quando le persone sono offline, si attengono a un paio delle loro fonti di notizie preferite. Scavano molto a fondo in quelle fonti di notizie e tendono a non discostarsi da esse. Online, è invece un po’ diverso. I lettori di una singola testata sono di meno, perché le persone diffondono il loro consumo di notizie su molte testate diverse.
Le notizie online sono spesso gratuite, così le persone possono accedere a contenuti provenienti da diverse fonti, e notiamo che la personalizzazione auto-selezionata è più prominente offline che online. Per questo motivo è importante confrontare le notizie online con l’alternativa realistica, e non un ideale.
Che effetto hanno i social media nella dieta mediatica delle persone?
I social media combinano la personalizzazione auto-selezionata con la personalizzazione pre-selezionata. Sappiamo anche che le persone scelgono di seguire determinate testate rispetto ad altre. Ma è anche possibile che gli algoritmi nascondano alle persone notizie a cui non sono interessate o testate che non apprezzano particolarmente. Le persone hanno tempo limitato, quindi le decisioni prese dagli algoritmi influenzeranno ciò che le persone vedono quando usano Facebook.
Per capire come i social media influenzano l’uso delle notizie, abbiamo confrontato le diete mediatiche delle persone che non usano i social media con altri due gruppi di persone: un gruppo che ha detto di usare intenzionalmente i social media per le notizie e un altro gruppo che ha detto di non usare intenzionalmente i social media per le notizie, ma di vedere le notizie quando sono sui social media per altri scopi. Così abbiamo preso dati dal Regno Unito, dagli Stati Uniti, dall’Italia e dall’Australia e abbiamo studiato l’effetto dell’uso dei social media su diversi gruppi demografici e su diversi social network.
Ecco cosa abbiamo trovato. Le persone che usano i social media per le notizie, in particolare se li usano anche per altri motivi, sono incidentalmente esposte alle notizie mentre sono lì e questo aumenta la quantità di notizie che le persone usano rispetto al gruppo che non usa affatto i social media. Quindi il gruppo che utilizza i social media viene in contatto con più fonti di notizie online.
È interessante notare che l’effetto è stato più forte per i più giovani, forse perché sono più abili nell’uso dei social media e più attivi su queste piattaforme. È stato più accentuato anche per le persone che non hanno un alto livello di interesse per le notizie. Abbiamo scoperto che l’effetto è stato più forte per YouTube e Twitter che per Facebook, cosa importante da tenere a mente. Il nostro studio evidenzia il fatto che la maggior parte delle persone, in particolare quelle che utilizzano i social media, non sono molto interessate alle notizie. E questo diventa particolarmente importante sul web, perché si tratta di un ambiente mediatico ad alta scelta. Questo rende molto facile per le persone che non sono interessate alle notizie scegliere di evitarle. Ma poiché queste stesse persone usano spesso i social media, i social media, per inciso, espongono le persone alle notizie anche quando non le cercano.
I motori di ricerca creano delle filter bubble?
I motori di ricerca sono diversi dai social media. Quando le persone cercano le notizie su un motore di ricerca, lo fanno intenzionalmente. Ma quando si cerca un particolare argomento, è comunque possibile che i motori di ricerca utilizzino una selezione algoritmica basata sui dati raccolti sull’uso passato. Quindi esiste ancora la possibilità che quando le persone si collegano ai motori di ricerca, la selezione algoritmica le intrappolerà in una filter bubble.
Abbiamo confrontato le diete mediatiche delle persone che cercano notizie con quelle di persone che dicono di non usare i motori di ricerca per le notizie in quattro paesi, e abbiamo studiato le diete mediatiche che questi due gruppi hanno in termini di ciò che chiamiamo diversità ed equilibrio. Quello che abbiamo scoperto è che un processo di serendipità automatizzato diversifica efficacemente le diete di notizie delle persone. Le persone che usano i motori di ricerca per le notizie utilizzano in media più fonti di notizie di quelle che non lo fanno. E, cosa ancora più importante, è più probabile che utilizzino fonti che hanno orientamento politico sia di sinistra che di destra.
Le persone che si basano principalmente sull’auto-selezione tendono ad avere diete di notizie piuttosto squilibrate. Hanno fonti di orientamento politico tendenzialmente più di destra o di sinistra. Le persone che usano i motori di ricerca tendono ad avere una divisione più uniforme tra le due.
Cosa dicono gli altri studi sulle filter bubble?
I nostri risultati sono in linea con diversi studi accademici nella stessa area che hanno affrontato il problema in modo leggermente diverso. Uno studio ha confrontato i risultati di ricerca di diversi tipi di persone, in particolare di repubblicani e democratici negli Stati Uniti. È stato riscontrato che i risultati che le persone hanno ottenuto quando hanno cercato argomenti politici erano più o meno gli stessi. Quindi non c’erano prove concrete che le persone con opinioni diverse ottenessero risultati di ricerca diversi.
Uno dei problemi nell’affidarsi ai dati dei sondaggi è che le persone spesso non sono in grado di ricordare quali fonti di notizie hanno usato. Questo è stato un problema costante per un certo periodo di tempo. Così abbiamo monitorato l’uso del web di un gruppo di persone nel Regno Unito e abbiamo confrontato situazioni in cui le persone vanno direttamente alle fonti di notizie con situazioni in cui le persone vanno alle notizie tramite Facebook, Twitter e una serie di altri servizi diversi.
Abbiamo scoperto che più le persone utilizzano l’accesso diretto, meno diversificata sarà la loro dieta di notizie. Non solo le persone usano più fonti di notizie quando ricevono le notizie sui social media, ma usano molte fonti diverse, e l’equilibrio tra queste diverse fonti migliora la diversità di opinioni.
Questa è una sorta di sintesi del lavoro che abbiamo fatto in questo settore. Ma è abbastanza rappresentativo del lavoro in questo settore nel suo complesso. Ci sono numerosi altri studi che trovano prove deboli dell’esistenza delle filter bubble o, nella migliore delle ipotesi, prove contrastanti. Quasi non ci sono studi che trovino una prova molto forte di questo tipo di effetti.
I social media incoraggiano la polarizzazione?
Anche se possiamo vedere una maggiore diversità di contenuti quando usiamo i social media e la ricerca, è possibile che questa diversità consista in fonti di notizie più partigiane o polarizzanti. Uno studio pubblicato da un team di ricercatori negli Stati Uniti ha esaminato, ad esempio, l’esposizione delle persone ad opinioni avverse su Twitter. Quindi, se erano repubblicani, sono stati bombardati con messaggi su Twitter dai Democratici, e viceversa. I ricercatori hanno misurato gli atteggiamenti prima e dopo questo processo e hanno scoperto che, mentre le persone prestavano attenzione ai messaggi della parte avversa, i loro atteggiamenti hanno cominciato a polarizzarsi e si sono radicati nelle loro convinzioni originali.
Noi abbiamo affrontato gli stessi problemi in modo leggermente diverso: abbiamo misurato il livello di polarizzazione che esiste in diversi ambienti di notizie in diversi paesi. Abbiamo guardato il pubblico delle singole testate e abbiamo visto quanto diverso fosse in termini di composizione delle persone di sinistra e di destra rispetto alla popolazione nel suo complesso. Negli Stati Uniti, non sorprende di certo l’aver scoperto che Fox News ha un’audience che è molto più orientata a destra rispetto alla popolazione nel suo complesso. Gli Stati Uniti sono un ambiente di notizie polarizzato perché le filter bubble sono molto più disperse rispetto ad altri paesi.
Quello che possiamo fare in questi paesi è anche confrontare online e offline. Quando abbiamo esaminato 12 paesi diversi, abbiamo scoperto che in otto casi su 12 il pubblico delle notizie online è leggermente più polarizzato, leggermente più disperso, rispetto a quello offline. In alcuni paesi, i numeri erano o più o meno gli stessi, oppure offline leggermente più polarizzati. In generale, però, gli ambienti delle notizie online sembrano essere più polarizzati. Forse perché ci sono molti più incentivi per alcune testate a produrre più contenuti online di parte.
Perché non dovremmo concentrarci sulle filter bubbles?
Concentrarsi sulle filter bubble può farci fraintendere i meccanismi in gioco e potrebbe anche distrarci da problemi un po’ più pressanti. Il motivo per cui questo è importante è che alcuni di questi problemi sono in qualche modo legati all’uso delle piattaforme. Non è che le piattaforme ne siano la causa, ma fanno parte del quadro.
La maggior parte delle prove empiriche indipendenti disponibili sembra suggerire che l’uso delle notizie online sui media di ricerca e sui social media sia più diversificato. Ma c’è la possibilità che questa diversità stia causando una sorta di polarizzazione, sia negli atteggiamenti che nell’uso. Questo è interessante, perché per certi versi è l’opposto di quanto previsto dall’ipotesi delle filter bubble.
L’ipotesi afferma infatti che in realtà otterremo meno diversità e ciò porterebbe a conseguenze negative: l’ipotesi, però, non riesce a svelare i meccanismi. Naturalmente, sappiamo che le piattaforme cambiano continuamente il modo in cui servono le notizie alle persone e sta cambiando anche il modo in cui gli utenti ricevono le notizie. Quindi dobbiamo esaminare criticamente gli effetti della selezione algoritmica sull’uso delle notizie, perché ciò che è stato vero negli ultimi anni non sarà necessariamente vero in futuro.
La cosa più importante di tutte, e questo è un argomento che è tratto da un recente libro di Axel Bruns, è che l’attenzione sulle filter bubble potrebbe impedirci di affrontare adeguatamente le cause più profonde della divisione sia nella politica che nella società. Mentre continuiamo a esaminare le piattaforme e i loro effetti sull’uso delle notizie, è fondamentale non cadere in questa trappola, ignorando alcuni dei fattori potenzialmente più importanti che stanno creando alcuni dei problemi cruciali che ci troviamo ad affrontare.
Articolo apparso originariamente sul sito del Reuters Institute for the Study of Journalism, partner dell’EJO nel Regno Unito e pubblicato per gentile concessione. Traduzione dall’inglese a cura di Simone Broggini.
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