Parola di Mario Morcellini, Direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza di Roma, che nel suo nuovo libro “Neogiornalismo. Tra crisi e Rete, come cambia il sistema dell’informazione” riflette sulle cause della perdita di credibilità del giornalismo italiano e sulla difficoltà di integrazione tra narrazione giornalistica e nuovi media.
Nel libro edito da Mondadori, il “Neogiornalismo” sembra quasi prendere le mosse dal “Neorealismo”, una corrente dei primi anni del ‘900 che trasformò il mondo della letteratura, del cinema e dell’arte in generale, quasi come il neogiornalismo sta facendo oggi per il mondo della comunicazione. Il prof. Morcellini ci spiega le ragioni del titolo: “l’assonanza semantica e forse anche spirituale con il neorealismo è rilevante, anche se non mi sono ispirato a questo movimento per il titolo per un motivo prettamente culturale. Il neorealismo lamentava l’irrealismo della letteratura e non è possibile applicare questo concetto alla comunicazione e al giornalismo. Questo libro nasce dalla necessità che il giornalismo si sottoponga ad una drastica e rigorosa riflessione sul proprio ruolo, cioè si rinnovi, da qui la parola ‘nuovo’ nel senso di neo – giornalismo. Il giornalismo, che ha come missione quella di raccontare il nuovo che cambia, si sottopone poco alla novità, vive facendo finta che il pubblico sia lo stesso di una volta e questo spiega gran parte dell’arretratezza culturale e del cattivo rapporto tra lettori e testi, tra giornalismo e società”.
Il volume analizza come si è evoluto il mondo dell’informazione e dove sta andando a dieci anni dal precedente testo “Multigiornalismi. La nuova informazione nell’era di Internet”. “Adesso” – dice Morcellini – “è diventata più precisa la recensione delle colpe del giornalismo, in Multigiornalismi eravamo più manieristi, ci sembrava che ci fossero rapporti più forti tra università e giornalismo. Invece il decennio non è andato in questa direzione, il giornalismo non è stato all’altezza dei drammatici problemi della società italiana. Ha recuperato un po’ di giornalismo d’inchiesta solo negli ultimi anni con e contro Silvio Berlusconi ma dopo essere stato a lungo compiacente con tutti i poteri politici che si sono alternati. Soprattutto ha perso la battaglia sull’innovazione del linguaggio e dei contenuti. La carta stampata è quella che ha perso di più dal punto di vista culturale, perché è quella meno costruita sulla brevità e sui linguaggi sincopati dei giovani e dei moderni. Il modo in cui il giornale rinuncia quasi linguisticamente ad avere giovani tra i propri lettori è scandaloso. Nessuna impresa economica può rinunciare ai giovani come target, solo i giornali lo fanno”.
Oltre che di crisi del giornalismo nel libro si parla anche di crisi della professione stessa, eppure fino a poco tempo fa si credeva che una cura potesse essere l’aumento dell’istruzione superiore o l’alta formazione. Invece i corsi universitari di comunicazione, in Italia, sono spesso oggetto di attacchi anche aspri: “questi attacchi sono il peggio che esprime la cultura e la politica italiana. I giornalisti tendono a proteggere la propria rete corporativa, hanno l’idea che devono essere essi stessi a scegliere chi può intraprendere questa strada. Da questo punto di vista è una delle professioni più medievali nella protezione delle proprie prerogative. È poi drammatico pensare che un ministro dell’istruzione e un ministro del lavoro (ora non più gli stessi) invece di difendere chi studia e chi non lavora, attaccano le scelte culturali e la disoccupazione. È il caso di una politica fortemente antigiovanile e su cui l’università è stata troppo esitante e troppo moscia. Occorre quindi impostare una battaglia di rigore sulle professioni comunicative. I giornalisti non sono moderni quanto la rappresentazione della comunicazione esige. Non riescono ad essere i testimoni dei linguaggi e dei nuovi immaginari della società. Basta vedere quello che succede nel continente dei giovani: fanno cose che i giornalisti non fanno, mentre i giornalisti scrivono cose che i giovani non verranno mai a sapere perché per loro è come se fossero scritte in latino”.
Il volume è un dialogo a più voci cui prendono parte studiosi e professionisti dell’informazione italiana e che studiano le varie dimensioni della crisi. La prima parte del libro è incentrata sullo scenario italiano e offre un focus specifico sulle dimensioni interpretative più importanti: una di esse è la crisi della mediazione giornalistica e la perdita di potere da parte della politica con il contributo di Christian Ruggiero; un’altra è l’ibridazione tra giornalismo e intrattenimento con il saggio di Andrea Cerase.
Nella seconda parte del libro si analizzano le dimensioni della crisi, le “news drama” e le contaminazioni con la cronaca, per arrivare nella terza parte all’individuazione delle vie d’uscita per il passaggio al futuro dell’informazione, come il giornalismo partecipativo, la riscoperta dell’inchiesta e la possibilità che dietro la crisi si realizzi una nuova identità, il neogiornalismo appunto.
Rimane Internet il nodo centrale nel cambiamento della professione. Il New York Times a marzo ha lanciato la sua versione Premium a pagamento, più ricca e interattiva rispetto a quella on line gratuita, una sorta di giornale 3.0 che sta avendo un discreto successo: già a settembre poteva contare su circa 324 mila abbonamenti (fonte “Il Tempo” del 14/12/2011).
In Italia qualcosa di simile sta tentando di fare Repubblica Sera, ma siamo pronti per un giornale digitale a pagamento? Il professor Morcellini ne è convinto: “Certo che sì. Solo che il giornalismo si deve sottoporre ad una riflessione strategica. Finora si è accontentato di vivacchiare assistendo ogni giorno alla crisi del prodotto e alla dissoluzione dei pubblici”.
Come si immagina allora il giornalista tra dieci anni? “Una sorta di ‘tablet man’. Il giornalista del 2020 dovrà essere molto capace di abbreviare la narrazione, di formattarla su piattaforme diverse quindi avere un testo articolato per la carta e uno breve per i supporti tecnologici. Dovrà essere un soggetto che ha fatto della sapienza delle forme brevi comunicative la propria bandiera. Fino ad oggi il giornalista sembra incapace di questo. C’è un paradosso: i giornalisti chiedono a tutti di dare risposte brevi e loro parlano tanto. La loro lingua è compromessa con la linguistica del passato. La comunicazione del futuro sarà quasi tutta al tempo presente, a parte forme sincopate di sintassi. La battaglia sarà proprio questa, cioè la capacità di fare forme sincopate di informazione che non facciano perdere valore al fatto notizia”.
La Rete ha messo in pericolo il giornalismo o anzi gli ha dato nuova linfa? “Possono ancora sperimentarsi forme nuove, linguaggi nuovi, in questo senso è interessante l’esperimento di Repubblica Sera”.
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