Se ci si attiene all’inflessibile legge dei numeri c’è poco da dire: l’avvento del digitale ha le dimensioni sociali, economiche e culturali di una vera e propria rivoluzione. Il nostro Vecchio continente europeo, per esempio, da solo detiene un quinto di tutti gli utenti mondiali di Internet. Nel 2000, su 820 milioni di abitanti, oltre 105 utilizzavano la grande Rete. Nel 2012 si erano quasi quintuplicati raggiungendo i 518 milioni. Significa che in dodici anni il tasso di crescita è stato quasi del 400% e che il tasso di penetrazione di Internet è pari al 63,2%.
E così, “i media digitali sono diventati una delle principali ‘ossessioni’ della società contemporanea: connettersi in Rete, acquistare prodotti online, scaricare un’app, aggiornare il proprio profilo virtuale, scambiare email o sms sono solo alcune tra le infinite attività e i gesti abitudinari entrati a far parte della vita quotidiana di miliardi di persone”, come scrivono Gabriele Balbi e Paolo Magaudda, autori del saggio Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità che verrà pubblicato nei prossimi giorni da Laterza. Lo abbiamo letto in anteprima e abbiamo potuto parlarne con uno degli autori, Balbi, professore-assistente alla Facoltà di scienze della comunicazione dell’Usi di Lugano. Con lui proviamo a descrivere i miti che circondano la digitalizzazione del mondo.
Professor Balbi, nel volume che ha scritto col suo collega dell’Università di Padova Paolo Magaudda, descrivete come in un manuale la storia del digitale e della digitalizzazione. Ma anche quelli che definite i suoi miti. Perché?
“È vero, noi parliamo di miti fondativi del digitale. Ma non prima di aver definito che cosa sia il digitale”.
Cioè?
“La trasformazione in numeri di tutto quello che prima era separato, quindi: testi fatti di parole, audio e video che vengono trasformati in sequenze di numeri e queste sequenze di numeri che vengono poi codificate in un linguaggio costituito da solo due ‘‘lettere’’ (zero e uno) e per questo chiamato binario. Un processo che per certi aspetti, secondo numerosi osservatori, ha rivoluzionato la nostra società e il modo di fare i media”.
Quanto e come l’ha rivoluzionata?
“In molti modi, ma forse l’impatto maggiore è stato sull’immaginario politico contemporaneo, che ha visto nel digitale una meta cui tendere a tutti i costi. L’esempio forse più interessante è la politica del governo Clinton che, nei primi anni ‘90 del Novecento, ha messo al centro quelle che ha chiamato le ‘autostrade dell’informazione’. Una politica che anche in Europa e in Giappone ha fatto poi della digitalizzazione un caposaldo. Quasi come se si trattasse di uno dei grandi temi in grado di far progredire e democratizzare le società contemporanee. Questo la dice lunga su quanto la digitalizzazione sia entrata nell’immaginario e sia una mitologia per la politica quotidiana”.
E invece?
“E invece bisogna chiedersi se tutto questo sia una rivoluzione o se sia continuità. Molto spesso si sente parlare di rivoluzione digitale. Tutto viene visto come una svolta epocale. Noi invece cerchiamo di indagare il fenomeno con una duplice prospettiva: la rivoluzione da un lato, ma anche gli elementi di continuità fra l’epoca digitale e il passato analogico dall’altro. In particolare ci concentriamo su computer, Internet e telefonia mobile. E lo facciamo ricordando che, per esempio, il computer c’era anche prima dell’avvento del digitale. Occorre partire dalle macchine da calcolo e dai telai. La storia di Internet parte dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Quella della telefonia da Guglielmo Marconi e dall’idea di trasmettere senza fili informazione e voce”.
Però è indubbio che la digitalizzazione dei media analogici nei settori che esaminate (musica, stampa, giornalismo, cinema, fotografia, televisione e radio) ne abbia modificato profondamente la fruizione.
“Nessuno lo nega. Noi tentiamo solo di prendere in esame quali sono alcune forme di continuità con il passato. Pensiamo alla televisione che è sì diventata digitale, ma per certi versi ha mantenuto alcune caratteristiche culturali tipiche del passato. Non dimentichiamo, poi, che la radiofonia digitale è uno dei grandi fallimenti tecnologici del fenomeno della digitalizzazione. Questo per spiegare come a volte il digitale può essere ‘resistito’ dalla società. Usiamo questo termine per indicare come la digitalizzazione non debba essere per forza irresistibile. Non è che arriva il digitale e cambia tutto”.
Tutto forse no, ma molto sì, almeno per la musica.
“Sì. Per la musica sì. Ma non va taciuto che le evoluzioni anche dal punto di vista antropologico e culturale non si realizzano nel giro di pochissimi anni. Sono dei processi lenti, a volte si realizzano attraverso prove ed errori. E ci sono diversi fallimenti”.
Parliamo dei miti, uno dei concetti chiave del vostro saggio.
“Sul digitale ci sono miti e contromiti. Uno dei miti, il principale, è che la digitalizzazione abbia un carattere globale e una natura uniformante e uniforme per tutto il Pianeta. Non è del tutto vero. Se noi guardiamo per esempio ai tassi di diffusione di Internet, vediamo che in alcune aree del mondo l’espansione della Rete è molto rallentata. In Africa, per esempio, nel 2012 solo il 15,6% aveva accesso a Internet. Nello stesso anno si raggiungeva il 63,2% in Europa, il 67,6% nei paesi australi e il 78,6% nell’America del Nord. Inoltre la digitalizzazione non è così uniformante come si pensa. Per la televisione digitale, per esempio, sono utilizzati un numero di standard superiore ai tre canonici della televisione analogica (Pal, Ntsc e Secam)”.
Un altro mito?
“C’è quello assai diffuso secondo il quale oggi ci sia una maggiore manipolabilità dei contenuti. Un’idea che poi si è tradotta nella mitologia del consumatore che è anche produttore, il ‘pro-sumer’. L’idea è che l’utente dall’essere passivo, quasi schiavo dei media di massa, sia diventato improvvisamente un soggetto superattivo, che costruisce le cose. È innegabile il fatto che gli utenti abbiano acquisito maggiore possibilità d’intervenire e creare con i media digitali. Alcune ricerche recenti, però, raccontano la ‘participation inequality’ o lo ‘slactivism’. Il fatto è, per spiegarlo in parole povere, che il presunto attivismo degli utenti dei nuovi media è in realtà riservato a una nicchia. O è basato su comportamenti pigri, da cui il neologismo ‘slactivism’, che dall’inglese slacker significa pigro, scansafatiche. Fare un click, un ‘Mi Piace’ o postare una foto non è un coinvolgimento di un utente attivo”.
Ma la digitalizzazione archivierà i mezzi di comunicazione di massa tradizionali?
“Anche questo è un altro mito, secondo noi. Si tratta dell’idea che la digitalizzazione debba per forza spazzare via i media tradizionali, dai giornali cartacei che secondo molti sono in grave pericolo, alla televisione, alla radio tradizionale. Ebbene, se esaminiamo attentamente i dati le cose non sono così chiare”.
Cosa dicono i dati?
“Dicono, per esempio, che mai come con l’uso di Amazon o di altre piattaforme, il libro cartaceo è tornato a circolare. Questo è un caso in cui si può piuttosto dire che il digitale stimola l’analogico, la carta”.
E i giornali?
“È vero che nei paesi occidentali le vendite dei giornali di carta sono in discesa. Ma in Cina o in India sono al contrario in ascesa. E soprattutto, se noi guardiamo ai vecchi mezzi di comunicazione di massa, – radio, televisione e giornali – nessuno di questi è morto o sta morendo. Come sempre avviene nella storia della comunicazione, c’è piuttosto una forma di integrazione. Per esempio YouTube utilizza molti filmati tratti dai palinsesti televisivi, e questa è una forma di integrazione. Così come, viceversa, la televisione stessa si adegua ai nuovi standard digitali con i podcast o la possibilità di rivedere i programmi, o con l’esplosione di canali”.
Nel saggio vi concentrate anche sulla politica riguardante i media digitali.
“Il discorso sulla politica digitale è alimentato soprattutto dalle politiche economiche dei paesi. Da un lato molti di questi paesi hanno visto nel digitale, in Internet in particolare, un mezzo per fare un ulteriore passo in avanti verso la democrazia. Al contrario altri paesi l’hanno visto come un mezzo per controllare più efficacemente le spinte liberalizzanti e democratiche. A questo proposito pensiamo immediatamente alla Cina ma non si tratta solo di una questione cinese, come abbiamo osservato anche all’interno dell’Osservatorio sui media e le comunicazioni in Cina attivo presso l’Usi. Tutti i paesi, così come avveniva con i precedenti mezzi di comunicazione, controllano in maniera più o meno efficace la Rete. Snowden insegna. Insomma, le vecchie politiche economiche dei mezzi di comunicazione sono state applicate ai nuovi media. In particolare a Internet. Il mito della democrazia va quindi un po’ sfumato”.
Non temete di essere accusati di voler demistificare a tutti i costi il digitale?
“Se c’è da andare contro a quello che si chiama il determinismo tecnologico, noi siamo d’accordo. Il determinismo tecnologico vede i mezzi di comunicazione come qualcosa che, per il solo apparire, cambia la società. Col nostro libro noi ci poniamo dal punto di vista culturale e vogliamo capire come varie culture abbiano adottato, riadattandoli, i mezzi di comunicazione. Il nuovo mezzo di comunicazione deve insomma scontrarsi e incontrarsi con le varie culture di riferimento. E poi alcuni dei miti della rivoluzione digitale sono chiari e visibili. Per esempio il caso emblematico di Apple e di Steve Jobs. Così come le rivoluzioni del passato avevano avuto i loro idoli (la Rivoluzione industriale aveva il vapore di Watt, quella comunista aveva Marx), quella digitale ha come mito un’azienda e un personaggio del tecno-capitalismo digitale che è appunto Steve Jobs. Apple ha avuto tre ruoli essenziali: con Macintosh ha trasformato il computer da un mezzo di comunicazione che era gestito dai governi fuori dalle case e occupava stanze intere, a un computer personale e domestico di massa. Poi è stata protagonista della convergenza tra computer, telefono e Internet con l’iPhone. Infine ha avviato nuovi settori dell’industria dei media, basti pensare a iTunes, per esempio”.
Dal punto di vista storico mettete in risalto più gli elementi di continuità che quelli di rottura. Ma dal punto di vista della gente comune la digitalizzazione è stata davvero una rivoluzione.
“Certo. Noi non diciamo che non si tratta di una rivoluzione. Nel titolo parliamo infatti di rivoluzione e continuità. Cerchiamo di individuare le linee veramente rivoluzionarie, ma ci schieriamo contro una retorica tutta tesa a individuare solamente le novità. Perché sosteniamo che analogico e digitale convivono tranquillamente. Pensiamo al caso del vinile che sembrava dovesse essere spazzato via di colpo dal cd, figuriamoci dalle piattaforme tipo Napster, e oggi è più vivo che mai. Ci sono alcune controtendenze di cui bisogna tener conto. E infatti noi parliamo di una ‘rivoluzione conservativa’”.
Articolo pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino, il 21 Ottobre 2014
Nella foto, il Babbage Engine. Credits: Michael Kappel / Flickr CC
Tags:carta stampata, crisi dei giornali, cultura digitale, digitale, digitalizzazione, internet, media digitali, radio, televisione, televisione digitale