Il video di Uramaki e la presentazione dell’evento a cura di Maria Grazia Mattei hanno aperto ieri, presso la Mediateca Santa Teresa a Milano, l’appuntamento MeetTheMediaGuru con Geert Lovink.
Di Lovink, in questi ultimi tempi, abbiamo letto molto, sentito parlare e sfogliato l’ultimo libro “Ossessioni Collettive” con l’ottima traduzione di Bernardo Parrella. Per questo, ci saremmo aspettati un Lovink agguerrito e ipercritico. Ieri, al contrario, ci è apparso uno studioso pacato, contenuto nell’esprimere i suoi giudizi e le sue valutazioni, preoccupato di trasmettere più un senso di fiducia nei meccanismi sociali di crescita della rete che della sua disgregazione.
Nel presentare alcuni dei progetti principali del suo Institute of Network Cultures, Lovink ha seguito una traiettoria morbida, anche a volte lenta e ridondante.
Facebook, Twitter e gli altri social network sono il risultato di una evoluzione. Dopo la bolla delle “.com”, Internet, che prima sembrava fondasse il suo futuro sull’e-commerce, è dovuta cambiare.
La gente ha iniziato a parlare in rete e le aziende hanno compreso che era possibile studiare ed analizzare queste discussioni, le tendenze ed i gusti delle persone, conservarle ed estrarne dati ed informazioni per il marketing. Dati che riguardano noi tutti e di cui non sappiamo e non sapremo, forse mai, l’uso o la destinazione.
Le persone hanno imparato ad usare tecnologie e linguaggi nuovi come l’HTML, a produrre e condividere immagini e video diventando, in alcuni casi, reporter. Rendendo disponibili informazioni che non lo sarebbero mai state.
Le persone hanno imparato a scrivere libri, a pubblicarli, a commentare e la carta presto scomparirà.
Ma per Lovink, in questi processi culturali e comunicativi vi è anche una “cultura del risentimento e dello sfogo” che deve essere superata.
“L’impegno che dovremmo assumerci tutti noi” dice Lovink “è di comprendere i processi che avvengono, i cambiamenti, il tipo di comunicazione che si svolge, perché comprendendoli possiamo far crescere la rete e migliorarla”.
I Social Network hanno successo anche perché sono dei “giardini recintati”, dove le persone si specchiano in gruppi di individui simili a sè stessi. Questa autoreferenzialità è negativa, ci vuole più sperimentazione e dobbiamo avere tutti più coraggio nel confrontarci con gli altri e far cadere questi recinti. E bisogna superare la retorica degli “amici” (cosa che ha fatto Google+) e dei “like” e aggiungere anche la possibilità del “dislike” (ma a chi servirebbe?).
Un dibattito aperto che Facebook, per come è strutturato, sembra non voglia.
Lovink ha poi accennato al fenomeno della cultura della personalità in rete, prendendo ad esempio il caso Wikileaks e Julian Assange, contrapponendolo al fenomeno Anonymous che, a suo avviso, svolge una funzione positiva per la rete senza porre al centro un individuo.
Tornando a i social network , Lovink ha ricordato come Facebook abbia lanciato una campagna contro l’uso di pseudonimi ed accounts non autentici e che, in qualche modo, si candidi a diventare “il fornitore ufficiale di carte di identità” e “non meravigliamoci se, fra un pò di anni magari potremo chiedere il nostro passaporto direttamente a Facebook…”. Ma Facebook, ricorda Lovink, è una società privata…
Non si può cambiare l’evoluzione dei media, ma si può migliorare, è sembrato essere il messaggio di Lovink. E questo cambiamento dipende da tutti noi.
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