La rivista scientifica International Journal on Media Management ha recentemente pubblicato l’articolo “Hacking Public Service Media Funding: A Scenario for Rethinking the License Fee as a Form of Civic Crowdfunding” frutto della ricerca mia e di Ivana Pais (Università Cattolica, Milano) sulla possibilità di riformare il modello di finanziamento del servizio pubblico dei media (Psm) integrandolo con gli schemi del crowdfunding civico. Proverò qui a riassumere i risultati più importanti della ricerca e le conseguenze che la sperimentazione di un modello come quello da noi proposto potrebbe avere per i media pubblici e per il giornalismo di servizio pubblico.
Con Ivana Pais, abbiamo ipotizzato un nuovo modello di finanziamento alternativo a quelli esistenti, che permetta maggiore partecipazione strutturale dei cittadini all’interno della politica economica ed editoriale dei Psm. La nostra ipotesi è che maggiore partecipazione ai processi decisionali produca anche maggiore coinvolgimento dei cittadini alle sorti del servizio pubblico e possa stimolare una maggiore cura di un bene comune come la produzione pubblica dei media. Maggiore coinvolgimento e maggiore cura significano anche, nelle nostre ipotesi, maggiore comprensione delle ragioni che giustificano il pagamento del canone, un aumento di responsabilità verso di esso e una maggiore disponibilità a pagarlo.
La nostra proposta prevede l’integrazione del canone con i meccanismi del crowdfunding digitale e si inserisce all’interno di quelle forme di crowdfunding orientate all’impatto sociale, che Renée Ridgway chiama “crowdfunding the commons” e all’interno di quelle forme di bilancio partecipativo che oggi vanno sotto l’etichetta del civic crowdfunding. Sebbene la nostra proposta sia indirizzata soltanto alla riforma del canone per i Psm, il modello di funzionamento potrebbe essere applicato e sperimentato anche ad altre forme di imprese mediatiche, come i media comunitari.
La nostra idea
La domanda di ricerca che ci siamo fatti è la seguente:
“È possibile riformare il canone Rai dando la possibilità ai cittadini di decidere su quali programmi investire una parte (poniamo il 20%) del costo del canone attraverso gli schemi del crowdfunding civico? I cittadini come reagirebbero?”. Secondo il nostro modello, ai cittadini che pagheranno il canone online verrà chiesto se accettano di pagare 5 euro in più per poter accedere a una piattaforma digitale dove scegliere i programmi su cui investire il 20% del canone (22,7 euro, arrotondati a 20) ed ottenere delle ricompense in cambio. I 5 euro in più richiesti serviranno a coprire i costi della piattaforma digitale, senza ulteriori spese per la Rai. Una volta sulla piattaforma ai cittadini viene chiesto di scegliere dove investire i 20 euro a disposizione. I programmi tv e radio prescelti per essere inseriti nella piattaforma di crowdfunding sono selezionati da una commissione di esperti che ogni anno selezionerà una lista di programmi che incarnano l’idea di servizio pubblico.
Il nostro modello è pensato come leva per riequilibrare il budget proveniente da canone verso quei programmi che fanno servizio pubblico. Abbiamo assunto che i programmi più popolari ma finanziati dalla pubblicità non abbiano bisogno di ulteriore sostegno. Il modello potrebbe comunque essere applicato anche in versioni diverse, più aperte al resto del palinsesto. Oltre ai programmi già esistenti, i cittadini potranno scegliere di finanziare anche nuovi programmi tv, radio o web. Le persone possono investire 1,5, 10 o 20 euro fino ad esaurimento del proprio fondo (20 euro), oppure decidere di donare una cifra superiore a 20 euro a loro scelta. Ogni investimento prevede una ricompensa diversa.
Il test
Abbiamo testato il modello su un campione di 639 cittadini italiani che hanno compilato un questionario online a risposte chiuse. 495 risposte su 639 sono state considerate complete e hanno formato il dataset finale. Il campione è stato pesato con le statistiche Istat della popolazione italiana che ha accesso e fa uso di Internet. Il periodo di campionamento, invece, si è esteso da 6 novembre 2014 al 31 gennaio 2015 (periodo in cui solitamente gli italiani sono chiamati a pagare il canone).
Risultati
Tutti i risultati del nostro test sono accessibili qui, dove è possibile trovare la descrizione di tutti i dati raccolti. In questa sede invece riassumeremo soltanto i dati principali e più significativi. Alla domanda “quanto saresti disposto a pagare per l’attuale offerta Rai?” l’83% del nostro campione ha risposto che vorrebbe pagare meno di quanto paga ora, il 10% è contento così com’è, e solo il 7% sarebbe disposto a pagare di più. Questa bassa propensione ad accettare il costo del canone si spiega anche con la bassa stima dei cittadini nei confronti dell’offerta Rai. Alla richiesta di valutare da 0 a 10 la qualità dei contenuti prodotti da Rai, il nostro campione ha valutato molto negativamente la tv e modestamente la radio. Chi paga il canone valuta l’offerta televisiva vicina al 4 su 10 e quella radiofonica quasi sufficiente (5,9 su 10).
Chi invece evade il canone valuta la tv pessima (2,9) e la radio modesta (5,61). La radio ne esce decisamente meglio, eppure assorbe solo tra il 6 e il 7% del totale delle entrate da canone. Eppure, nonostante l’83% del campione vorrebbe pagare meno, una volta messo di fronte alla possibilità di decidere come utilizzare il 20% del proprio canone (20 euro), una maggioranza assoluta, il 70%, sarebbe disposta a pagare l’attuale canone e ad aggiungere 5 euro per avere accesso alla piattaforma di crowdfunding online. Quelle stesse persone che un momento prima avevano affermato che il canone attuale è troppo alto, sarebbero disposte, in buona parte, a pagarlo così com’è e a spendere anche 5 euro in più per poter avere voce nel processo decisionale e scegliere su quali programmi indirizzare la propria quota.
Questo dato dimostra quindi che le stesse persone che vorrebbero pagare meno per questa offerta mediale, sarebbero disposte a pagare di più per avere maggiore controllo. Ovvero, le persone sono disposte a pagare per partecipare di più. Più partecipazione si traduce, come avevamo ipotizzato, in maggiore disponibilità a pagare il canone, perché così facendo i cittadini si sentono più responsabili del bene pubblico, essendo stati chiamati a decidere anche loro dove destinare i loro soldi. Chiaramente, questa disponibilità a pagare di più per avere più controllo varia in base ad alcuni fattori, innanzitutto con l’aumentare del reddito: tra chi ha dichiarato un reddito netto mensile tra i 2000 e i 2500 la disponibilità raggiunge l’81%, mentre tra chi ha dichiarato un reddito tra 500 e 1000 euro mensili la disponibilità è al 56%. Le immagini seguenti mostrano dove andrebbero i soldi di questo potenziale modello di crowdfunding:
I programmi televisivi selezionati per essere inseriti nella piattaforma di crowdfunding in media riceverebbero 1,04 euro contro 0,68 della radio, dimostrando che i partecipanti sanno che produrre televisione costa più che produrre radio, ma allo stesso tempo, i programmi più premiati da questo modello si sono rivelati essere quei programmi che hanno già sviluppato nel tempo delle forti community di pubblico e che hanno un rapporto quasi “affettivo” coi propri spettatori/ascoltatori. Questo rapporto per esempio fa sì che un programma radiofonico come Caterpillar riceva più finanziamento di molti programmi televisivi che costano sicuramente di più.
Questi risultati confermano le dinamiche tipiche dei progetti di crowdfunding, dove la costruzione di una comunità di sostenitori appassionata è la chiave del successo di ogni campagna. Questo potrebbe stimolare i produttori di programmi del servizio pubblico a lavorare sulla relazione con la propria community in vista del round di crowdfunding. Sulla base dei risultati ottenuti, abbiamo immaginato due scenari possibili: se il modello venisse applicato e al primo round di sperimentazione partecipassero almeno 100mila persone, questo modello sposterebbe sui programmi selezionati 1,98 milioni di euro, che corrispondono allo 0,11% delle entrate da canone del bilancio Rai 2014.
Se invece si arrivasse, nei round successivi, a coinvolgere un milione di persone a prendere parte alla piattaforma di crowdfunding, si sposterebbero 19,8 milioni di euro, pari all’1,1% delle entrate da canone. Tutto sommato, tutta questa partecipazione, non sbilancerebbe in maniera significativa gli equilibri economici del servizio pubblico ma permetterebbe un sostanziale aumento di budget a disposizione per una serie di programmi di qualità e avvicinerebbe i cittadini a prendersi cura del servizio e sentirsi più coinvolti e più responsabili.
Il modello che abbiamo proposto, alla luce dei risultati ottenuti dal test, non è poi così radicale come si potrebbe pensare. Ma anche se non venisse applicato, questo modello e il test effettuato dimostrano a livello teorico e pratico che le persone attribuiscono un valore significativo alla propria partecipazione: un modello di servizio pubblico chiuso a qualsiasi forma di partecipazione come quello attuale viene letteralmente “disprezzato” dai cittadini e percepito come troppo costoso, un modello dove “non si sa dove finiscono i soldi” (risposta di un partecipante al test nello spazio delle risposte aperte).
In un modello invece dove si dà spazio e potere decisionale al pubblico, il costo del canone non è più disprezzato ma considerato giusto. Addirittura, alla richiesta se con questo modello fosse stato disponibile a donare qualcosa in più oltre ai 20 euro compresi già nel canone, il nostro campione ha risposto in media che sarebbe stato disposto a donare 22,8 euro in più. La partecipazione ha un valore economico che qui ci sembra di essere riusciti a dimostrare.
Questa ricerca, nei modi in cui è stata condotta presenta dei limiti evidenti e offre spazio per ulteriori verifiche e ampliamenti. Innanzitutto è una ricerca di natura esplorativa: il campione di cittadini che hanno sperimentato il modello è ancora troppo limitato. Inoltre, essendo una simulazione che non prevedeva l’uso di soldi reali, può contenere dei bias: i cittadini che hanno deciso di investire di più in documentari e giornalismo investigativo, potrebbero, alla prova dei fatti, compiere scelte diverse. Il nostro modello andrebbe testato realmente per analizzare lo scarto tra quello che hanno dichiarato nella simulazione e le scelte di investimento realmente compiute al momento dell’implementazione reale del modello. Quindi il modello andrebbe testato su un campione più ampio di cittadini che hanno potere di investimento su risorse reali.
Il modello però riserva anche molte prospettive future di ricerca: è pronto per essere sperimentato in altri paesi, da altri ricercatori, per poter effettuare analisi comparative sulle reazioni di cittadini appartenenti a paesi diversi sul piano culturale, economico e politico. Il modello da noi progettato e testato rappresenta uno strumento di “civic empowerment”, ma allo stato attuale una sua potenziale applicazione comporterebbe anche il rischio di essere uno strumento di empowerment in mano a una élite (coloro in possesso di maggiori competenze in digital literacy e più abituati ad utilizzare le piattaforme digitali).
Questo potrebbe avere come conseguenza una sovra-rappresentazione dei gusti mediali delle classi egemoni e più alfabetizzate ai media digitali. Per questo prevediamo una sperimentazione del modello che si apra gradualmente, dopo continui processi di verifica e modifica, a più ampie porzioni di cittadini, fino a raggiungere il più alto numero possibile.
La presentazione grafica della ricerca e dei risultati si trova a questo link
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