Qual è l’elemento decisivo in grado di spiegare le difficoltà nel trovare e nell’implementare nuovi modelli di business per il giornalismo digitale? Secondo una recente ricerca pubblicata dal journal portoghese OBS, si tratterebbe del decrescente valore economico dell’informazione nella network society.
Lo studio, intitolato “The Economic and Social Value of Information in the Network Society”, suggerisce che tutti i tentativi di pensare nuovi modelli di business per questo settore abbiano fin qui fallito non perché fossero sbagliati o mal applicati, ma al contrario per il fatto che l’informazione nel suo complesso perde inevitabilmente valore economico quando passa da un paradigma analogico a uno digitale.
La maggior parte dei gruppi mediatici sta infatti cercando di spremere al massimo le proprie audience sul web nella speranza di ottenere lo stesso valore monetario che precedentemente riusciva a generare da quelle analogiche e, allo stesso tempo, sta cercando anche di ricavare dagli inserzionisti digitali il livello di introiti che si era soliti ottenere dai prodotti offline.
E proprio qui sta il paradosso: la maggior parte delle aziende mediatiche ha audience molto più vaste per i prodotti digitali rispetto a quelle analogiche, le quali, però, rappresentano ancora la fonte di guadagno più interessante. Questo è un problema che chiunque lavori nei media conosce bene e si può facilmente riscontrare nei casi di moltissime testate online.
I modelli di business infranti dei media
Perché i media non riescono a generare dalle loro vaste audience online nemmeno gli stessi ricavi che ottenevano dal ben più ristretto pubblico analogico? L’ipotesi della ricerca in esame è che questo sia il risultato del declino del valore economico stesso dell’informazione, ovvero quel valore che può essere raccolto dall’acquisto e dalla vendita di prodotti e servizi informativi.
Misurare il valore dell’informazione di per sé non è facile. Quello d’uso in questo caso, è un modello soggettivo e si riferisce ai benefici che un individuo può ottenere da un pezzo di informazione. Se questo valore non può però essere misurato esternamente, quello di scambio è invece oggettivo e per quanto riguarda il mercato delle news può essere calcolato con il prezzo a cui prodotti informativi vengono scambiati.
Alla fine, sono due gli indicatori a riflettere il valore economico dell’informazione: l’Arpu (Average Revenue per User), che mostra la somma effettivamente pagata dall’utente per i prodotti e i servizi informativi di cui fa uso, e il Com (Cost per Mille), che invece riflette il prezzo pagato dagli inserzionisti per raggiungere una data audience.
Lo studio in oggetto si è basato sui dati delle audience e dei ricavi di diverse aziende mediatiche e web e ha anche preso in considerazione in modo più approfondito lo studio di caso del settimanale automotive portoghese Authoje e dalle sue corrispondenti entrate analogiche e digitali. Il risultato, è stato un importante ed evidente gap tra le prime e le seconde.
Authoje ha infatti guadagnato un totale di 118€ da ogni lettore della sua edizione cartacea nel 2013, con un lettorato medio per numero di 10,330 unità (e un totale conseguente di 1,218,940€). Sul fronte digitale, invece, il magazine è riuscito a guadagnare solamente 0,22€ da ognuno dei suoi utenti unici mensili (per complessivi 171,600€). Il suo Cpm digitale, quindi, è stato mediamente quindici volte inferiore rispetto a quello della carta stampata.
Questo problema non è però solo di Authoje. Ogni qual volta si applicano calcoli Arpu o Cpm alle entrate di un’azienda mediatica, si arriva sempre alla stessa conclusione: può essere di cinque, dieci o quindici volte, ma i ricavi digitali dei media saranno inevitabilmente inferiori a quelli analogici. Un risultato che ovviamente sembra confermare l’ipotesi secondo cui ci sarebbe qualcosa, nel digitale, in grado di ridurre complessivamente il valore economico dell’informazione. Ma cosa?
Network + digitale= abbondanza x accesso
Per rispondere dobbiamo tornare alla teoria della network society, la quale sostiene che, in opposizione al flusso di informazione lineare del passato, il nuovo contesto mediatico non abbia un centro chiaramente identificabile e, di conseguenza, non possa essere centralmente comandato, sorvegliato o filtrato. Inoltre, pesa il fatto che vi sia una forte componente informatica, il che comporta che tutta la comunicazione tra reti di computer sia digitale, cioè numerica e binaria. La conseguenza finale è, come noto, l’abbondanza di informazioni disponibili.
Inoltre, quando smaterializzata, come nella sua forma digitale, l’informazione rivela una peculiare caratteristica economica: ha infatti alti costi fissi ma bassi costi marginali, i quali tendono anche ad avvicinarsi allo zero, privando quindi l’informazione di qualsiasi valore economico sostanziale. Nel momento in cui consideriamo la combinazione di questi fenomeni – sovrabbondanza e smaterializzazione -, possiamo capire a fondo perché il valore economico delle news sia calante e perché i loro Arpu e Cpm si svalutino, come documentato dai dati disponibili.
Complessivamente, i risultati della ricerca mostrano come il declino economico dell’informazione sia intrinseco al panorama generale in cui le testate giornalistiche devono operare oggi, uno scenario cui i media stanno cercando con difficoltà di adattarsi. Se cerchiamo di guardare al futuro in prospettiva e con le lenti del valore economico dell’informazione, potrebbe essere quasi impossibile trovare una soluzione, ma questi dati consento almeno di inquadrare il problema in un contesto differente.
Articolo tradotto dall’originale inglese da Alessandro Oliva
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