Nei quotidiani americani quella di correggere e pubblicare i propri errori è un’abitudine diffusa. Non è lo stesso per quelli europei. “Quanto più qualcuno attira l’attenzione, tanto più spesso diviene vittima di errori giornalistici – questa è la regola”, è quanto Craig Silverman afferma sul suo blog (www.RegretTheError.com) nell’ annuale bilancio degli errori giornalistici.
Quasi tutti i giornali americani rettificano sempre le notizie false nei “correction corners”, ossia in spazi fissi all’interno della testata. Ciò li differenzia in maniera positiva dalle manovre di occultamento e dal tacere le proprie inadeguatezze tipiche dei media europei. Ancora un paio di anni fa, tuttavia, la grande maggioranza (58%) dei giornalisti statunitensi credeva che alla scoperta di un errore di cronaca seguisse “immancabilmente” una rettifica. I lettori e le lettrici però erano molto più realistici: solo uno scarso 20% concordava con questa affermazione.
Se si prendessero le percentuali di errori rivelate da Maier come parametro di confronto, occorrerebbe – così dice il ricercatore – “quasi un’intera pagina di correzioni, se non di più”. Esaminando dieci fra le più importanti testate regionali, egli ha scoperto che, in netto contrasto con le autovalutazioni dei giornalisti, più del 98% di tutti gli errori non è stato rettificato (cfr. NZZ del 3.3.2006). In questo modo Maier tira forse acqua ai mulini di tutte le redazioni europee, che non si sforzano affatto di compiere rettifiche? No, poiché altri studi confermano chiaramente che quasi due terzi (63%) dei lettori americani sanno apprezzare gli errata corrige.
La sfida consiste quindi piuttosto nel correggere in modo più responsabile le mancanze degli articoli giornalistici, in particolare quando sono disinformativi. Un primo passo sarebbe l’ammissione che le conoscenze fornite dalla ricerca sugli errori potrebbero essere utili per ridurne la frequenza. “Per introdurre un sistema di correzione sistematico ed esteso a tutti i campi anziché casuali c’è bisogno di un clima di dialogo aperto all’interno della redazione”. Piuttosto che imporre è necessario un lavoro di persuasione. Ma anche quando questo riesce, rimangono due problemi: “non ci sono riconoscimenti per una cronaca precisa”, dice Maier. Proprio perché l’accuratezza viene intesa come qualcosa di ovvio, i singoli individui mancano di stimoli che li portino a badarvi eccessivamente. In particolare i giornalisti esperti contano sul fatto che la maggior parte delle fonti, per apatia o disinteresse, per paura o per un calcolo di costi-guadagno non reagiscono agli errori con delle smentite. E per lo più non ci sono neanche sanzioni in caso di mancata rettifica.
Jack Shafer della rivista online Slate ha ragione, quando in definitiva considera l’evitare e il rettificare gli errori un problema economico, una questione di spese e guadagno. Secondo lui, valutando i costi in rapporto all’utilità di evitare errori, i giornali hanno ottenuto tutto ciò che potevano nella maniera più sensata. Su questo punto non concorda tuttavia Scott Maier, che prima di dedicarsi alla ricerca ha lavorato egli stesso per anni in una redazione. Secondo lui, per raggiungere maggior precisione e credibilità, reporter e redattori dovrebbero semplicemente continuare a porsi due domande: “Come lo so?”, per identificare gravi errori fattuali, e “cosa proveranno i protagonisti della vicenda, leggendo la storia?”, per evitare errori “soggettivi” più leggeri.
Maier ammette che gli errata corrige non sarebbero in grado di risolvere il problema di credibilità del giornalismo: “Il modo in cui una storia viene presentata continua ad essere più importante dell’esposizione corretta di tutti i fatti. Ciò che conta veramente sono le tinte, le fonti, la rilevanza, la prospettiva. Maier riesce a capire perfettamente perché le redazioni in Svizzera e in Germania erano così restie ad attirare l’attenzione sui propri errori.
Ma dalla sua prospettiva americana la correzione degli errori è “un imperativo” per quattro validi motivi. Innanzitutto, un giornale attendibile deve eliminare errori e malintesi. In secondo luogo, è più probabile che si ripetano errori che non sono stati rettificati. Terzo, il fatto di rivelare gli errori aumenta la propria credibilità. Quarto, nel mondo odierno della comunicazione informale la precisione è ormai il criterio con cui i giornalisti professionisti si possono distinguere dai blogger e dai “giornalisti partecipativi”.
L’infaticabile Craig Silverman raccomanda di trasformare la stesura di rettifiche in un’ “arte”. Come esempio cita Ian Mayes, da molti anni difensore civico del britannico Guardian. Egli, durante il suo mandato ha ricevuto 90.000 lamentele dei lettori e ha redatto 14 000 errata corrige per il suo giornale. Ne ha fatto dei veri e propri “gioielli”, ma ogni volta ha chiarito in poche parole quanto seriamente lui si occupi degli errori, quando hanno causato danni. Una chicca del suo senso dell’umorismo britannico: ieri a pagina 2 abbiamo sbagliato di nuovo a scrivere Morecambe, la città nel Lancashire. Ci succede sempre più spesso.” E poi sei mesi più tardi:”La mancanza di rettifiche di ieri è dovuta ad un guasto tecnico, e non ad un improvviso accesso di infallibilità giornalistica.
* Silverman, Craig (2007): Regret the Error, New York: Sterling Publishing