Premessa: non sono un esperto dell’Africa. Ma per ciò che sto per descrivere essere un esperto potrebbe essere più che altro un ostacolo. Piuttosto, vorrei semplicemente sollevare una questione: come la realtà veicolata dai mass-media contrasta con l’esperienza personale che si raccoglie quando si ha l’opportunità di conoscere da vicino un paese africano – nel mio caso il Ghana.
Sono stato in Ghana una decina di giorni, non solo nella capitale Accra ma anche l’entroterra – in qualità di ospite, invitato a 3 tavole rotonde con giornalisti locali per parlare di libertà di stampa. Motivo di questa serie di conferenze: il mese scorso ricorrevano i 50 anni da quando il Ghana ottenne l’indipendenza diventando la cellula germinale del movimento panafricano. Oggi il paese appartiene a quella manciata di stati africani nei quali vige una parziale democrazia, dal punto di vista economico si riscontra una ripresa e dove i giornalisti non devono temere per la propria vita se ogni tanto azzardano qualche affermazione fuori dal coro.
La realtà africana veicolata dai media consiste principalmente in catastrofi, guerre e malattie. Ciò che rischia di finire nel dimenticatoio è la vita quotidiana con la quale gran parte della popolazione africana si vede confrontata: una miseria inimmaginabile, nessun rifornimento di acqua potabile, niente corrente elettrica, nessuna canalizzazione. Le baracche di legno e lamiera nelle quali si trovano ammassati, a milioni, in grandi città senza volto. Le poche persone che in queste circostanze riescono ad essere produttive e le innumerevoli – soprattutto donne – che devono tirare avanti come venditrici ambulanti ai bordi delle strade.
A me è parso abbastanza fuori luogo, per non dire spiazzante, discutere della libertà di stampa in questo contesto. Ma anche in questo caso vale la pena dare una seconda occhiata, proprio perché la realtà veicolata dai mass-media e l’esperienza personale non vogliono combaciare: se si segue la graduatoria di Reporter senza frontiere, il Ghana compare tra i cinque paesi africani con la situazione migliore. Nella graduatoria che deriva dalla comparazione con altri 168 paesi, il Ghana si situa al 34. posto davanti a Francia (35.), Italia (40.), Spagna (41.) e Stati Uniti (53.).
Ma che aspetto ha la libertà di stampa in Ghana? Ognuno può esprimere ciò che pensa. Ma i prodotti editoriali, anche se a prima vista sembrano presentare un’ampia varietà, a guardar bene somigliano molto a postille senza significato.
E così sembra essere anche dietro le quinte: ad esempio, quando a Tamale stavamo per dare inizio alla nostra tavola rotonda, è comparso il governatore locale. Il politico ha trasformato l’evento in una personale conferenza stampa. Per un’ora ha raccontato quali sforzi sono stati fatti nella regione affinché si potesse realizzare la festa per il 50., attirando i giornalisti («miei colleghi e amici») con il metodo della carota e del bastone («Conosciamo il nome di tutti i seccatori e procederemo contro di loro senza pietà») e ordinando ai cameraman della TV locale quali passaggi del suo discorso mettere in onda, come se si trattasse del proprio staff di PR.
Poco prima dell’arrivo in Ghana, il presidente di un’associazione giornalistica regionale era stato assassinato. Riguardo all’assassino e al movente non si è saputo nulla fino al momento della nostra partenza. Ancora si spera che l’assassinio non fosse mosso da motivazioni politiche – diversamente dalle più recenti esecuzioni in Russia dalle quali i nostri politici occidentali hanno tanto generosamente tolto lo sguardo (in testa l’ex presidente tedesco Schroeder, che notoriamente considera Putin un «democratico candido e senza macchia»).
Ma torniamo in Africa. Personalmente, per la prima volta in viaggio nel continente nero, mi sono dolorosamente reso conto quanto nonostante, o per via, della globalizzazione si percepisce la mancanza di corrispondenti che lavorino in Africa, in grado di farsi comprendere e con la volontà di fermarsi nei quartieri miseri per coglierne la vita quotidiana. La libertà di stampa è, purtroppo, solo una precondizione. Non è sufficiente: noi stessi, lettori, spettatori, ascoltatori dobbiamo cercare più a fondo nelle nostre tasche (e più raramente soffermarci sui prodotti gratuiti) se vogliamo davvero sapere cosa accade in Africa. Altrimenti gli editori continueranno a tagliare sui corrispondenti nel – purtroppo non del tutto irragionevole – presupposto che la maggior parte di noi in fondo non voglia davvero saperne.