Che il presidente americano Bush e il suo governo abbiano mentito affermando che Saddam Hussein disponesse di armi di distruzione di massa e avesse legami con Al-Qaeda ingannando l’opinione pubblica, non è una novità. Con quale frequenza e attraverso quali affermazioni, invece, non è stato chiaro fino a quando alcuni ricercatori non hanno raccolto una ricca documentazione pubblicandola su un sito web.
Lo studio parla di “bugie orchestrate per fomentare la guerra” e chi clicca il sito fatica a non condividere questa visione. Il governo americano ha più volte difeso la propria posizione affermando di essersi basato su informazioni fornite dai servizi segreti. Nel frattempo, grazie al New York Times, si è potuto stabilire con certezza che per lo meno alcune delle affermazioni governative erano, in realtà, in netta contraddizione con le dichiarazioni allora rilasciate dai servizi.
La ricca documentazione del Center for Public Integrity contribuisce a vere e proprie riflessioni scientifiche sullo “Spin Doctoring” nella comunicazione pubblica delle istituzioni governative. Anziché scomporsi per il comportamento poco etico, i ricercatori basandosi su una teoria economica, hanno analizzato a quali condizioni sociali e mediali le “bugie professionali” restano impunite anche quando gli autori vengono smascherati. Che questa domanda non sia di interesse esclusivamente accademico lo riscontriamo nella vita quotidiana: la decisione se imbrogliare o meno non dipende solo dalla probabilità di essere scoperti, ma anche dalle eventuali sanzioni in cui si potrebbe incappare.