Corriere del Ticino, 07.11.2011
Se ne occupa Anya Schiffrin nel saggio a più voci «Bad News»
Di rado è stata posta la questione su quanto e in che modo i media e il giornalismo possano avere contribuito al meltdown delle banche e al crollo dei mercati finanziari. È possibile intravedere in tutto questo anche il segnale di una crisi del giornalismo economico e finanziario? Veniamo informati in modo insufficiente, nonostante o proprio a causa della costante e abbondante fiumana di notizie, a nostra disposizione in tempo reale?
Anya Schiffrin, della Columbia University, è una delle poche esperte al mondo ad occuparsi dell’argomento stando alle costole dei giornalisti economico-finanziari. Nell’ultimo lavoro che ha curato, Bad News, cerca di spiegare da ogni prospettiva possibile cosa sia andato storto e si chiede come sia potuto succedere che «la stampa economica americana si sia persa la storia del secolo», come recita il sottotitolo del libro.
Schiffrin vede il parziale fallimento del giornalismo economico-finanziario in stretta connessione con la parabola discendente in cui lo stesso giornalismo professionale è caduto negli ultimi anni: «sin da prima della crisi, i ricavi legati alle inserzioni sono crollati e poi peggiorati sempre più. La conseguente ondata di riduzione del personale e di licenziamenti ha fatto tremare i giornalisti, timorosi di opporsi alle tendenze del gregge». Già ben prima della crisi finanziaria del 2008 il giornalismo americano è quindi «imploso» e in pochi anni sono sparite circa un terzo delle mansioni all’interno delle redazioni.
Finora non sono stati effettuati studi su come i giornalisti economici agiscano in tempi di crisi. Le poche indagini svolte hanno però confermato che in tali condizioni di incertezza si sviluppa una maggiore dipendenza dalle fonti. «La velocità con cui si sviluppano le vicende indica quanto poco tempo i giornalisti abbiano a disposizione per realizzare ricerche dettagliate e di ampia portata, nonché per rivolgersi ai ricercatori o agli ‘addetti ai lavori’ ricavando così una prospettiva di analisi maggiormente approfondita». In tempi di crisi qualche fonte si sarebbe naturalmente esaurita per il timore che «le cattive notizie contribuiscano a fare peggiorare la situazione», mentre qualche altra si sarebbe impegnata solo per dare alla storia lo spin giusto a seconda dei propri interessi.
I giornalisti e le loro fonti
A questo proposito, nel suo contributo al volume, il Premio Nobel Joseph E. Stiglitz è convinto che un atteggiamento critico da parte della stampa possa combattere quell’istinto del branco che agevola la crescita della bolla speculativa. Il giornalismo potrebbe occuparsi dei necessari checks and balances e allo stesso tempo «contribuire al risanamento dei mercati, privi ormai di ogni legame con la realtà». D’altra parte, Stiglitz spiega anche perché questa esigenza rimanga spesso solo un’illusione: i giornalisti non vivono al di fuori della società e anche loro vengono travolti dalla mentalità comune che talvolta li spinge ad andare dove tira il vento. Anche per l’economista, un pericoloso rischio si cela pertanto nel «rapporto simbiotico» che lega i giornalisti e le proprie fonti, un rapporto che spesso arreca gravi danni alla società. Troppo spesso le redazioni si limiterebbero ad una cronaca del tipo «lui ha detto che, l’altro ha sostenuto che», ovvero a un «mero riferire le diverse posizioni, senza alcun analisi», come se «un reporter daltonico alle prese con un servizio sul colore del cielo desse la stessa importanza a chi afferma che il cielo è arancione rispetto a chi invece lo vede di colore blu».
La crisi? Nessuno l’ha vista
Dean Starkman della Columbia Journalism Review segnala dal canto suo tutti gli altri «filtri» che non avrebbero riconosciuto in tempo la crisi: Chief Risk Manager, dirigenti e direttori di istituti finanziari, di uffici contabili e di revisione dei conti, agenzie di rating, regolatori e persino giornalisti. Nella sua inchiesta, che copre il periodo dall’inizio del 2000 a metà 2007 e comprende i nove media economici americani più importanti, Starkman individua ben 730 contributi in cui si mette in guardia contro la crisi. Tuttavia, rispetto ai 200.000 articoli che solo il Wall Street Journal ha pubblicato in questo periodo di tempo, è come parlare di «un paio di tappi di sughero che galleggiano su un flusso di notizie grande come le cascate del Niagara».
Chi osa andare controcorrente?
Se Chris Roush, esperto di giornalismo economico della University of North Carolina di Chapel Hill, cerca di dimostrare, sulla base di pochi esempi, che la cronaca della crisi era «migliore della sua fama», a Robert H. Giles e Barry Sussman della Harvard University preme ricordare le «antiche virtù» del giornalismo, ormai purtroppo calpestate. I due studiosi reclamano la necessità di uno spirito critico, affinché i giornalisti vadano controcorrente e si oppongano alle tendenze del «gregge».
I rapporti con gli economisti
È vero, può sembrare un po’ fuori moda, ma simili appelli scaturiscono anche dal senso di impotenza. Per comprendere davvero perché il giornalismo economico è parzialmente fallito, ci viene in aiuto un’altra tesi dei due esperti di Harvard: il rapporto tra giornalisti ed economisti si è rivelato particolarmente difficile a causa delle continue contraddizioni in cui versano i giudizi degli esperti. Un primo gruppo, particolarmente presente nella macchina mediatica, è costituito da ricercatori di economia altamente qualificati, che tuttavia, letteralmente «sequestrati» dal Wall Street Journal, rappresenterebbero determinati interessi commerciali. Un secondo gruppo, invece, comprenderebbe economisti che avrebbero interiorizzato la teoria dei mercati efficienti tanto da rimanervi disperatamente aggrappati persino in questo momento, nonostante la «tremenda catastrofe che ha fatto perdere il lavoro, la casa e i risparmi a milioni di persone» e che ne ha palesato i difetti. Il terzo gruppo sarebbe invece quello degli esperti «credibili», convinti che i «mercati possano fallire, se minacciati dalla speculazione irrazionale e da bolle finanziarie, e che i governi rivestano un ruolo importante nella regolamentazione dei mercati e nella realizzazione di una politica monetaria che ne agevoli la stabilizzazione».
Certo, si tratta di un quadro piuttosto grossolano, ma non del tutto sbagliato che cerca per lo meno di spiegare l’esigenza di onestà e la fatica che caratterizza il lavoro dei giornalisti nella ricerca della verità. D’altra parte, i «camaleonti» sono ovunque e nella lotta per l’attenzione mediatica il loro branco è sicuramente il più numeroso.
*ANYA SCHIFFRIN (A CURA DI) BAD NEWS. HOW AMERICA’S BUSINESS PRESS MISSED THE STORY OF THE CENTURY New York-London, THE NEW PRESS, 2011, 240 pagg, $ 24.95.
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