In Italia in questo periodo si fa un gran parlare di etica del giornalismo e dei doveri di chi fa informazione. I fatti di cronaca politica, da ultimo lo scandalo della Protezione Civile, vengono a galla tramite le intercettazioni telefoniche e sono supportati da grandi campagne di stampa. Ed è un fiorire di polemiche sull’uso che gli organi di informazione fanno di queste intercettazioni. Ma non solo. I toni usati sulla stampa e nei talk show d’informazione televisiva sono sempre più elevati. Sempre meno ci si àncora ai fatti nelle argomentazioni e sempre più si scade nell’insulto e nelle urla. Sempre più i giornalisti sono protagonisti della vita politica italiana, rappresentanti di posizioni politiche, se non proprio dei partiti e le testate diventano armi con cui combattere in quest’arena. Il giornalismo ne perde inesorabilmente in credibilità e autorevolezza.
Ne aveva già parlato Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, ai tempi dello scontro con Repubblica che riguardava proprio il ruolo che il giornalismo deve avere in una democrazia e l’argomento era stato ripreso da questo Osservatorio.
Probabilmente è a causa della consapevolezza della degenerazione preoccupante della situazione che i temi etici tornano alla ribalta nei dibattiti interni alla categoria.
Ora ne parla su Tabloid, periodico dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, il presidente dell’Ordine Letizia Gonzales, nel suo editoriale dal titolo “Etica e responsabilità nel Dna del giornalista”.
L’articolo prende spunto dalla presentazione di un «Manifesto per un’etica dell’informazione» da parte dell’Ucsi, l’Unione cattolica della stampa italiana.
L’associazione dei giornalisti cattolici, in occasione delle celebrazioni per i suoi 50 anni, ha proposto un manifesto in 10 punti, che si rivolge non solo ai giornalisti ma a tutti gli operatori della comunicazione. Più che un decalogo di regole pratiche da seguire, il manifesto è una dichiarazione di quelli che sono i valori cardine del giornalismo, i principi guida che lo governano.
Si guarda ad un’informazione di qualità che deve rimanere tale, senza degenerare nell’infotaiment (informazione + entertainment), alla responsabilità delle notizie che si selezionano e al modo di darle, all’onestà intellettuale che dovrebbe permettere di fare la differenza fra informazione e manipolazione dei fatti, ad un impegno nel far sì che credibilità e dignità rimangano le caratteristiche chiave della professione. Ma più di tutto si chiede un’assunzione di responsabilità nel lavoro di tutti i giorni, che metta al riparo da commistioni con il mondo del marketing e dei poteri forti, che troppo spesso inficiano la correttezza dell’informazione. Siamo di fronte, insomma, ad un deciso richiamo ad un’etica della responsabilità.
Quelli enunciati dal manifesto, però, non sono principi nuovi nel mondo del giornalismo italiano. Esistono infatti da tempo codici deontologici e carte dei doveri che hanno come obiettivo lo stesso che si propone il manifesto: tutelare l’etica professionale. Ma allora perché l’Ucsi ha sentito l’esigenza di promulgare una nuova carta? Nella premessa al manifesto si riconosce l’esistenza e l’utilità dei molteplici documenti di autoregolamentazione, che vengono accettati come presupposto a quanto viene enunciato nei 10 punti.
La verità è che sebbene la deontologia (ovvero le regole di correttezza professionale che una data categoria si dà per autodisciplinarsi) abbia prodotto diversi documenti, non sempre questi trovano un riscontro effettivo nello svolgimento quotidiano del lavoro. Una cosa sono le norme scritte sulla carta, un’altra è la loro messa in pratica. In Italia i diritti e i doveri del giornalista sono sanciti dall’articolo 2 della legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, la n. 69 del 1963. In aggiunta a quanto prescritto dalla legge, anche i vari consigli regionali dell’Ordine dei giornalisti, come pure le singole testate, si sono muniti di Carte, prodotto delle loro coscienze deontologiche. Alcune di esse affrontano i problemi generici della professione, altre temi specifici, come la Carta di Treviso del 1990, interamente dedicata alla tutela dei diritti dei minori nell’informazione.
Le regole quindi non mancano e sono per di più elaborate dagli stessi giornalisti che sentono l’esigenza di autodisciplinarsi. Il problema è come farle rispettare. Ma non solo, forse il vero problema è quello di far sì che queste norme diventino l’ossatura profonda del lavoro di ogni giornalista, che le interiorizzi al punto che si possa arrivare a superare la preoccupazione di come farle rispettare. Il pregio del «Manifesto per un’etica dell’informazione» potrebbe essere proprio questo, ovvero la volontà di ribadire la centralità di principi che non siano solo direttive pratiche, ma che illuminino quelle regole che dovrebbero essere scolpite nella coscienza di ciascun giornalista che responsabilmente svolge il proprio lavoro, così fondamentale per il buon mantenimento della democrazia. Speriamo solo che non rimanga lettera morta, come tante iniziative che si sono succedute al riguardo, iniziative lodevoli ma che non si sono tradotte poi in un concreto miglioramento della situazione.
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