Quando la mafia non fa più notizia

2 Settembre 2005 • Etica e Qualità • by

Corriere del Ticino, 02.09.2005

Una tendenza al silenzio che di fatto favorisce la nuova strategia della criminalità organizzata
Sembra un paradosso: proprio quando la stampa estera riscopre il tema della mafia, Problemi dell’Informazione – l’unica rivista scientifica sul giornalismo in Italia – nei suoi ultimi due numeri si chiede: ma la mafia non fa più notizia? Guardando le prime pagine dei giornali nazionali italiani sembra che sia così.

Ma, ammonisce la rivista, occorre fare attenzione: questa tendenza fa sì che si realizzi proprio ciò che questa organizzazione criminale desidera: non apparire sui media, restare nell’ombra. La stampa deve farsi un esame di coscienza: « O sei contro la mafia o, se ti nascondi dietro il silenzio, finisci per favorirla » , così il segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti Vittorio Roidi cita Rita Borsellino, sorella del giudice assassinato dalla mafia nel 1992. Un monito che i media italiani, tiepidi di fronte a questo tema, dovrebbero tenere pre- sente. Sembra che parlare di mafia non piaccia: si prediligono temi più piacevoli e leggeri. « Ormai le cronache di mafia si danno solo quando non se ne può fare a meno » – ribadisce Giuseppe Di Lello, magistrato – sottolineando come la cronaca dei giornali locali sia spesso slegata da qualsiasi riferimento che possa portare il lettore a fare un’analisi critica della situazione e sia solo « cronaca spicciola di indagini, di arresti, di sequestri di beni, di processi » . Proprio quel tipo di cronaca che non compromette il giornalista e lo fa « scrivere molto per non dire nulla » .Roidi afferma che perfino in seno alla televisione di servizio pubblico, la Rai, parlare troppo di mafia solleva critiche – come ha dimostrato il recente caso di «Report» , trasmissione di Raitre accusata di aver denigrato la Sicilia per aver proposto un servizio sulla mafia che non spara. È proprio questo cambiamento nell’agire della mafia, che ha abbandonato la propria strategia stragista, che ha « avvallato l’idea che la mafia sia meno pericolosa e meno forte perché non spara più, ma così nonè»­ ammonisce Franco Nicastro, Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sicilia. I media italiani, soprattutto dopo gli attentati terroristici di Londra e Sharmel- Sheik, hanno raccontato ininterrottamente la paura per ulteriori attacchi terroristici. Per contro, ciò che i giornali trattano poco è come nell’ Italia meridionale la popolazione viva quotidianamente con la paura della mafia, della camorra e della n’­ drangheta. La mafia sembra destinata ad essere relegata nel dimenticatoio, insieme ad altri grandi temi, come ad esempio l’AIDS. Argomenti importanti, dei quali si dovrebbe continuare a discutere, ma che dopo anni suscitano meno interesse e scendono nella gerarchia di importanza delle notizie.

Tutti i poteri forti tentano di usare la stampa per i propri scopi e le organizzazioni malavitose moderne capiscono e si adeguano: Pantaleone Sergi, giornalista e saggista italiano, illustra un altro modo in cui la mafia può utilizzare i mezzi di informazione per i propri scopi raccontando il caso de « Il dibattito » , un periodico calabrese che alla fine dello scorso anno è stato sequestrato dagli inquirenti perché indagato per essere considerato a servizio della mafia.

Mascherato da giornalismo investigativo, metteva sistematicamente alla gogna i magistrati che si occupavano di mafia: « Giustizia infedele»,« Una toga abusata e il delirio di onnipotenza » – titolava questo periodico lanciando ai magistrati accuse e attacchi gratuiti. Privo di professionalità, usando toni populistici, questo mensile proponeva un modello di interpretazione della realtà per « rendere normale l’anormalità della presenza della mafia e anormale la normalità della giustizia » – afferma Sergi. Questo, sottolinea l’autore, non ha nulla a che fare con il giornalismo italiano. Non si tratta di una tendenza generalizzata, ma rimane preoccupante: un caso del genere impone una seria e profonda riflessione sulle reali condizioni di salute di questa organizzazione malavitosa, sulle sue strategie di comunicazione, sul ruolo delle redazioni accomodanti e, non da ultimo, sull’assuefazione degli italiani – che si indignano sempre meno e meno a lungo – quando sentono parlare di mafia.