All’origine del fenomeno fake news

23 Maggio 2017 • Brevi, Etica e Qualità • by

Gianfranco Goria / Flickr CC / BY-NC-ND 2.0

Troppe bugie, troppa confusione. Facebook e Google – che in materia di di diffusione di notizie farlocche non temono rivali – hanno deciso di darsi una ripulita per evitare di essere automaticamente considerati generatori incontrollati di disinformazione. Dopo avere creato una guida per gli utenti sulle “fake news”, di recente Facebook ha sospeso 30 mila account falsi in Francia, in un giro di vite contro le “bufale” che spesso sono diffuse attraverso profili e pagine non attribuibili a persone reali. Quasi negli stessi giorni Google ha invece annunciato la creazione di un’etichetta di verifica per il suo motore di ricerca e per Google News.

In pratica verranno mostrate informazioni sulle dichiarazioni contenute nelle notizie: si dirà da chi sono riportate e se una fonte ha verificato quella particolare dichiarazione. Perché è chiaro che nell’epoca delle “post-verità” bisogna correre ai ripari e cercare di capire di quali informazioni ci si possa davvero dare. Una sfida che riguarda anche e soprattutto i media tradizionali. Ne parliamo con l’esperto Stephan Russ-Mohl, Direttore dell’Osservatorio europeo di giornalismo che sul tema della disinformazione pubblicherà un saggio nei prossimi mesi.

Lei sta lavorando a un libro sulle fake news, ma dietro a questo termine mi sembra che si nascondano tanti concetti diversi: la notizia inventata, la notizia falsa, quella distorta, quella incompleta. Ma cosa sono, per finire, le fake news?
“Le fake news sono qualcosa di inventato con l’intenzione specifica di ingannare il pubblico. Per questo, nel mio libro, che uscirà in autunno, parlo di disinformazione più che di fake news. Un discorso più ampio, insomma, per descrivere che cosa non funziona nel nostro sistema mediatico e di comunicazione pubblica”.

E se qualcuno diffonde un’informazione falsa senza sapere che è falsa?
“In questo caso potrebbe comunque appartenere al mondo delle fake news. Può avvenire con un altro ruolo, quello di chi diffonde l’informazione falsa, non di chi la crea. È qualcosa che si può fare molto spesso, ad esempio su Facebook, quando si condivide una notizia che si è convinti sia vera, ma in realtà non lo è. Oppure quando si sa che si tratta di satira e si pensa che i tuoi amici lo capiscano, ma questo invece non succede. Tuttavia, per creare delle fake news bisogna avere la precisa intenzione di ingannare”.

Chi sono i creatori di fake news?
Per rispondere bisogna prima chiedersi a cosa servono le fake news. Ci sono, prima di tutto, motivi di propaganda politica. In questi casi le notizie false potrebbero essere create dai servizi segreti, come probabilmente hanno fatto quelli russi in occasione dell’ultima campagna presidenziale negli Stati Uniti. Oppure a crearle sono gli spin doctor dei politici stessi che vogliono creare attenzione e sanno che, purtroppo, spesso si attira più attenzione con una notizia falsa che con una vera. E poi non bisogna dimenticare che con Facebook, con Google e con altre piattaforme esiste un incentivo a creare delle fake news”.

Perché?
“Semplicemente per creare un fenomeno virale. E quando un’informazione di qualsiasi natura diventa virale può generare guadagni: basta metterci sopra della pubblicità. Fino ad oggi Facebook e Google hanno condiviso gli introiti con i fornitori dei contenuti. Un famoso ricercatore americano ha studiato per anni in che modo i media correggono o non correggono le fake news. E ha scoperto che alcuni degli articoli falsi più condivisi durante le ultime elezioni americane provenivano da Veles, una cittadina nella Macedonia, dove alcuni adolescenti inventavano le notizie di sana pianta. E lo facevano unicamente a scopo di lucro. Non sono diventati ricchi, ma per gli standard economici della Macedonia guadagnavano molto bene (uno di loro ha spiegato di guadagnare fino a 1800 euro al mese, ndr)”.

Notizie false solo a scopo di lucro, insomma.
“Esatto, e hanno scovato anche diversi americani dediti a questo tipo di attività, come ad esempio Paul Horner. Il caso Horner, detto per inciso, ha fatto il giro del mondo perché il 18 novembre scorso Horner ha confessato al Washington Post di guadagnare fino a 10 mila dollari al mese creando siti web e promuovendoli sui social network con titoli accattivanti che puntano al clickbait”.

È per questa ragione che le fake news sono un fenomeno strettamente legato al web e ai social network?
“È chiaro che mancano i giornalisti professionisti che controllano e verificano le notizie create ad arte al fine di ingannare. Non bisogna dimenticare che le fake news sono costruite bene, sono fatte apposta per diffondersi facil- mente. E così vengono viste, distribuite e condivise da moltissime persone. Ricercatori come Walter Quattrociocchi hanno analizzato con una ricerca sui big data dozzine di profili con notizie reali e altri con notizie complottiste. Il risultato è che tutti e due i tipi di notizie si diffondono attraverso un ‘effetto bolla’, ma quelli con le notizie false creano una bolla più grande”.

C’è anche un problema di formato. Su Google News o su Facebook la notizia del New York Times viene visualizzata esattamente come quella del sito spazzatura. Ha quindi più peso il contenuto che la sua fonte. In questo sistema come si fa a dare più peso alle fonti?
“Questa è la vera sfida. Dobbiamo insegnare già ai giovani della scuola dell’obbligo a valutare le fonti delle notizie. Stando ad alcune ricerche tante persone credono alle notizie semplicemente perché sono state condivise dai loro amici. La fonte non è più il New York Times, ma è l’amico Enrico o l’amica Carla. Questo è molto pericoloso, perché spesso Enrico e Carla non sono in grado di valutare le fonti della notizia che diffondono”.

E noi giornalisti?
“È un problema anche per i giornalisti. Un tempo una notizia di usa da un’agenzia d’informazione era quasi sempre attendibile, perché qualcuno aveva fatto a monte un lavoro di verifica. Oggi, invece, si fa copia e incolla e questa pratica attecchisce anche nel giornalismo bypassando i controlli”.

Secondo recenti ricerche, anche le smentite di notizie false non vengono credute. Come mai?
“Purtroppo è vero. Infatti, anche se sono convinto che i media debbano sempre correggere gli errori, la correzione non modifica molto l’opinione del pubblico. Anzi, è molto probabile che la correzione non raggiunga chi si trova nella bolla delle notizie false”.

Cosa significa? Che vogliamo leggere solo le cose a cui crediamo?
“Esatto. Ci sono stati tanti ricercatori nel ramo della psicologia sociale o delle scienze comportamentali che hanno dimostrato che è così. Aggiungo che, francamente, anche per i professionisti dell’informazione e per i ricercatori, è difficile liberarsi da questa tendenza a cercare conferma delle proprie idee nelle notizie, anche se non sono vere o verificate. Perciò possiamo essere quasi sicuri che qualcuno che non ha mai sentito parlare di questo fenomeno ne sia vittima”.

In Germania il Governo ha deciso di punire le fake news su Internet. Facebook, Twitter & Co rischiano di dover pagare multe fino a 50 milioni di euro. È una soluzione praticabile?
“Difficile valutare questa decisione. Non mi piace l’idea che Facebook diventi un censore solo perché teme di dover pagare una multa molto alta. Non è questo l’approccio giusto. Anche se capisco molto bene perché il Governo tedesco abbia fatto questa scelta. Perché queste grandi piattaforme non accettano di non essere più solamente dei social network e sono diventate editori a tutti gli effetti. E allora, volenti o nolenti, devono accettare anche le responsabilità che ne derivano. Preferirei che Facebook accettasse questa responsabilità investendo nell’editing, senza la paura di una multa altissima. Sarebbe molto meglio. E poi c’è un altro problema: quando un editore diventa troppo grande e troppo forte giustamente noi ci preoccupiamo. Stranamente non lo siamo se lo diventa Facebook”.

La figura del nuovo presidente Usa Donald Trump è spesso abbinata alle fake news. Cosa ne pensa?
“Penso che fino ad oggi il sistema dei cosiddetti fatti alternativi, di cui parla appunto l’Amministrazione americana, ha funzionato abbastanza bene. Ma personalmente sono convinto che a lungo termine non può funzionare. La cosa è preoccupante se si fa un paragone tra quello che succede oggi e quello che era successo con Nixon, qualche decennio fa. Negli Stati Uniti il Quarto Potere a quei tempi era molto molto più forte di oggi. Questo è in sé stesso preoccupante”.

Com’è la situazione in Svizzera?
“Per me la Svizzera è sempre stata un’isola felice ed è anche per questo motivo che ho scelto di fare ricerca in questo Paese. Ci sono sì anche degli sviluppi preoccupanti, ma rispetto al resto dell’Europa abbiamo ancora un servizio pubblico che funziona abbastanza bene e non è diventato completamente dipendente dai politici. Forse per via della democrazia diretta abbiamo dei mass media, televisioni e radio pubbliche e private a un livello di responsabilità alto. Dobbiamo riconoscerlo”.

E nel resto d’Europa?
“La situazione è più preoccupante. Ho l’impressione che vent’anni fa si sperava che i valori dell’Ovest, cioè quelli della libera opinione, della stampa libera, ma anche della responsabilità dei media potessero essere esportati anche nell’Est e nel Sud del continente. Invece, quello che sta succedendo è che, siccome i media privati non guadagnano abbastanza soldi, questi diventano preda di investitori che vogliono esercitare un potere politico. Spesso si tratta di populisti. Sono molto preoccupato da questo processo in cui a lungo termine perdiamo credibilità – come avviene in Polonia, in Ungheria o in Turchia. Insomma, non sono molto ottimista. Anche perché, per come è costruita, l’Unione europea non ha il potere politico che bisognerebbe avere per a affrontare dei giganti come Google e Facebook”.

Articolo pubblicato originariamente dal Corriere del Ticino

 

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