Nella società iperconnessa, paradossalmente bloccata allo stato attuale da una pandemia globale, è importante riflettere su come l’informazione e il modo di comunicare l’emergenza in Italia e nel mondo stiano seriamente rischiando di perdere il controllo in un’epoca, quella digitale, in cui trasparenza e abbondanza di contenuti caratterizzano ogni sistema sociale e mediatico.
Il gioco dei numeri dei contagiati, la crescente percezione di insicurezza, la folla nei supermercati, la chiusura, la riapertura e di nuovo la chiusura di alcuni luoghi pubblici hanno chiaramente mostrato come l’informazione online, in particolare, si configuri oggi come puro “intrattenimento”, da un lato, e, dall’altro, come strumento in grado di persuadere politica e cittadinanza, capace di governare tempo e spazio e di dare il via o lo stop alle nostre vite. E le tecnologie su questi aspetti stanno dimostrando di avere un potere da non sottovalutare.
Nell’ambiente digitale le informazioni sulla salute, sull’importanza delle mascherine sui numeri dei contagi, diventano virali e a volte si rivelano più pericolose della stessa pandemia perché a una situazione generale complessa viene ad aggiungersi ansia e preoccupazione rischiando di minare la già precaria serenità dei più fragili. Il rischio è di incappare in notizie prive di fondamento, strutturate per accrescere il traffico di siti internet che, spesso, non sono neanche testata giornalistica. Occorre accertare l’autorevolezza della fonte che pubblica il contenuto che ci interessa, soprattutto quanto si tratta di leggere informazioni a carattere scientifico all’interno di un contesto di crisi ed emergenza dove paure ed emozioni prendono il sopravvento.
Le narrazioni false che si diffondono negli spazi online ed offline arrivano spesso molto più lontano della verità e i media, con i loro “spetta-attori” , svolgono un ruolo importante nel favorire che ciò accada, promuovendo le cosiddette fake news, allo scopo di guadagnare traffico e social engagement, piuttosto che comportarsi come affidabili fonti informative. L’overload informativo, l’eccesso cioè di informazioni rintracciabili online, è un fenomeno che si verifica quando si riceve una quantità tale di contenuti da creare un disordine ed una confusione tale, al punto da rendere impossibile il poter prendere una decisione.
Infatti l’esponenziale sviluppo della tecnologia ha contribuito alla diffusione di questo fenomeno e la grande quantità di materiale informativo cosi differente, rischia sia di inibire la capacità di selezionarlo, sia di scegliere una posizione (critica) riguardo una specifica tematica o di fronte ad uno specifico comportamento. Per la ricercatrice dell’Università di Sheffield, Farida Vis, le false notizie si diffondono al pari di quelle vere; i network non discriminano in base all’autenticità del contenuto, in realtà tale compito spetterebbe agli utenti: il loro comportamento a tal proposito può fare la differenza, come per esempio scegliere di citare una fonte esterna o criticare una notizia.
Spesso la moltitudine di informazioni si presenta priva di contesto o della loro fonte originale, viene percepita come un “rumore” in termini cognitivi, dato che uno stesso fatto può avere interpretazioni diametralmente opposte o può essere confutato da un’altra informazione. I rumors, voci e notizie non verificate, emergono costantemente a proposito delle situazioni di guerra, celebrità, indicatori economici, campagne elettorali e programmi di governo e vengono twittate, condivise, approvate, discusse pubblicamente, diventando parte del nuovo ecosistema mediale.
Lo studioso Cass Sustein sottolinea, nel suo libro On Rumors, l’importanza di distinguere tra voci e pettegolezzi: la prima ha a che fare con la ricerca di un senso, di un’ipotesi che ci aiuti a creare una spiegazione a una situazione non chiara, mentre il pettegolezzo riguarda la considerazione sociale e unisce, influenza, membri di un determinato gruppo. La distinzione messa in evidenza dallo studioso mostra come la quantità di informazione tenda ad aumentare, ma questo contemporaneamente porta ad una radicale riduzione della qualità della comunicazione-informazione: è qui che ritroviamo la radice delle bufale online e della “post- truth”: il sovraccarico dei sovraccarichi è il problema, la mole di informazioni in cui noi tutti siamo gettati senza alcun filtro, mediazione, educazione.
Una delle sfide più difficili e urgenti, che emerge all’interno di questo scenario sociale cosi complesso, è rappresentato dal fatto che gli attori sociali non sono preparati a gestire informazioni in conflitto tra loro. La psicologia comportamentale suggerisce come i nostri cervelli preferiscono ricevere informazioni che si conformino a ciò che già conosciamo e in cui già crediamo; questo perché tendiamo ad interpretare e assimilare solo quelle informazioni che vanno esclusivamente a rafforzare ciò in cui già crediamo , finendo per rifugiarci nelle nostre conoscenze già esistenti e nei pregiudizi.
In questo modo hanno origine i rumors, dalla nostra reazione umana e cognitiva di fronte a una situazione sociale di incertezza e dall’accumularsi di contenuti complessi. Le voci (rumors) sono fili nel complesso tessuto dello scambio sociale, prodotti di informazioni continuamente scambiate, che non sono mai a riposo dentro un individuo, non sono pensieri privati, ma si muovono e si rafforzano attraverso un insieme di soggetti.
Non sono dunque “un incidente”, ma parte dell’esperienza umana e tale condizione è causa della rottura dell’attuale sistema informativo, della debolezza della narrazione ufficiale a quella alternativa influenzata dai nostri pregiudizi. Può aiutarci ora a trovare il giusto equilibrio il concetto di etica applicata alla comunicazione, intesa come disciplina che si occupa di considerare e valutare l’insieme degli atti che costituiscono la condotta (l’agire) dell’individuo e del sistema media.
Lo stesso sociologo Zygmunt Bauman sottolineò nel suo lavoro Le sfide dell’etica la necessità di ripensare a un tipo del tutto nuovo di etica: un’etica fatta su misura dell’enorme distanza spazio-temporale in cui possiamo agire e su cui agiamo, anche se non lo sappiamo, né lo vogliamo. L’etica sta in mezzo, fra educazione, emozioni umane e logiche mediali, a significare che qualunque discorso sul rapporto fra mezzi, uomo e vissuti emotivi, assume una profondità e un significato differenti, a seconda che venga inquadrato sotto un profilo di natura strumentale oppure attraverso la lente di un approccio etico-umanistico ed educativo.
Le molteplici incertezze associate con l’epoca dei media digitali, possono imporci di pensare le implicazioni normative della vita con i media. I rischi che si corrono sono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una cittadinanza senza cittadini, basata fondamentalmente su una “simulazione della partecipazione” all’emergenza (nel caso specifico), che si riflette direttamente su concetti e categorie sociali, politiche ed etiche come la cittadinanza, la partecipazione, la democrazia, l’innovazione, la libertà e la responsabilità e che deve “fare i conti” con il ruolo sempre più predominante e strategico assunto dalla comunicazione.
Allo stesso tempo, occorre passare da una “cultura della connessione” alla “cultura del contatto”, apprendendo il digitale e comprendendone cosi il senso, senza respingendo la nostra umanità. La cultura del contatto è da intendere come la via di superamento della finta comunicazione e della finta democrazia tipiche della cultura della connessione, in particolare nella cosiddetta “Fase 2” della pandemia, quando saremmo costretti a ricostruire e rivalutare le nostre relazioni sociali.
Dunque il problema non è l’esistenza della rete informatica, ma il suo essere utilizzata come dispositivo di controllo del proprio Sé, del proprio linguaggio, della propria comunicazione. Mentre la connessione senza educazione, affidata alle tecnologie, lascia chiunque nell’isolamento del soggetto individualista e consente solo un simulacro di partecipazione, senza coinvolgimento personale e dialogico, il contatto, supportato da consapevolezza e competenza (negli spazi online ed offline), comporta incontro, scoperta, esperienza diretta, rinascita delle relazioni.
Serve ancora tempo, pratica, educazione per superare anche il nuovo “virus comunicativo” della disinformazione e recuperare il buono stato di salute dell’informazione giornalistica e istituzionale durante e dopo la pandemia.
Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle degli autori e degli intervistati e non rispecchiano necessariamente quelle di tutto l’EJO
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