Weltwoche, Nr. 45, novembre 2004
Che la verità è la prima vittima di guerra è corretto solo a metà: i servizi di tanti giornalisti occidentali che parlavano del terrore a Beslan sono stati un attacco consapevole all’oggettività.
Scriviamo centinaia di articoli, pubblichiamo sui siti internet migliaia di lanci di agenzia, commentiamo in televisione immagini spettacolari, parliamo per ore alla radio. Eppure noi giornalisti raramente siamo testimoni diretti degli eventi che narriamo. È uno dei paradossi del mondo dell’informazione. Non nuovissimo, a dir la verità, se si considera che nel 1922 uno dei più acuti studiosi americani Walter Lippmann, lo aveva evidenziato denunciandone i rischi.
Oggi, nel 2004, i media occupano una parte sempre più importante nella vita della nostra società – 24 ore su 24 , frenetici, insaziabili – eppure non si può dire che siano più trasparenti e affidabili. Anzi i ritmi sempre più intensi del ciclo delle news ha accentuato la dipendenza da fonti indirette: come fa un giornalista del Tages Anzeiger a verificare che le notizie provenienti da Falluja corrispondono alla realtà? Come fa la SSR a essere certa che le croccanti immagini dei disordini a Bogotà o a Caracas diffuse dai circuiti televisivi internazionali sono autentiche e recenti? Semplice: non possono verificarle se, come accade molto sovente, non hanno un inviato sul posto e deve credere a quanto riferiscono la Cnn o la Reuters. A volte nemmeno la presenza sul posto è sufficiente a garantire un’informazione corretta e fedele, perché nell’era della comunicazione istituzioni internazionali e governi, democratici e non, hanno imparato a gestire i media. Nei regimi autoritari imponendo l’intramontabile censura, in quelli liberali avvalendosi di tecniche sofisticate – messe a punto dagli spin doctors – che consentono di orientare le informazioni, specialmente nei momenti di crisi, senza che i giornalisti ne siano consapevoli.
Portavoce di voci di corridoio
Provate a ripensare ai grandi avvenimenti degli ultimi 15 anni: che cosa avete visto della prima guerra del Golfo o di quella in Afghanistan o di quella in Irak nel 2003? Immagini trasmesse dalla Cnn, da Fox News e, l’anno scorso, dai giornalisti «embedded» con l’esercito americano. Filmati hollywoodiani ma che non rispecchiavano la realtà. Non abbiamo visto civili uccisi, non i corpi e nemmeno le bare dei soldati morti, non le case distrutte dai bombardamenti. Fino a quando non sono iniziati gli attentati, il Pentagono è stato abilissimo nel riuscire a diffondere le immagini di una guerra «pulita». Sono rarissime le occasioni in cui i giornalisti possono raccontare liberamente quel che davvero accade davanti ai loro occhi. Una di queste riguarda uno dei fatti più tragici degli ultimi anni: il sequestro della scuola a Beslan, in Ossezia del nord, ai primi di settembre da parte di un commando di terroristi ceceni. Il sottoscritto era uno dei tre giornalisti di lingua italiana presenti sul posto. La mia affermazione può sembrare inverosimile: com’è possibile che nella Russia di Putin, accusata di limitare pesantemente la libertà di stampa, i cronisti non abbiano subito condizionamenti? Primo, le limitazioni ci sono state ma riguardavano la stampa russa, non quella occidentale. Secondo, tutto è avvenuto in pieno giorno, davanti a migliaia di persone. Contrariamente a quanto accaduto al teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 – quando il blitz avvenne di notte e la disinformazione di regime fu capillare ed implacabile, come ebbi modo di verificare di persona (ero presente anche lì) – nella periferica Ossezia del Nord la tenaglia della censura era molto meno stretta, perché la gente del posto raccontava nella propria lingua, l’osseto, quel che i rappresentanti del Cremlino, in russo, non dicevano. E soprattutto perché poche ore dopo la fine della battaglia era possibile intervistare i sopravvissuti e grazie alle loro testimonianze aggirare la censura e smascherare in tempi brevissimi le bugie delle versioni ufficiali. Eppure non tutti i giornalisti presenti a Beslan hanno colto questa straordinaria opportunità.
La missione di ogni giornalista dovrebbe essere quella di riportare i fatti con equilibrio, sforzandosi si tenere separata la cronaca dalle opinioni. Ma proprio durante quei tragici giorni alcuni hanno fatto prevalere il «reportage a tesi», quello dei fatti piegati alle proprie opinioni. Da una parte i quotidiani che hanno riferito con oggettività quanto accaduto nella scuola, come la maggior parte dei quotidiani britannici e, in Italia, Corriere della Sera e il Giornale. Dall’altra i detentori del Verbo, quelli che avevano capito tutto prima degli altri e sapevano indicare senza esitazioni chi fosse il responsabile del massacro, come tutta la stampa francese (sia conservatrice sia progressista) e, in Italia la Repubblica.
Il tono viene dato, come sempre, dai titoli. Sabato 4 settembre il Figaro non ha dubbi: «L’assalto si trasforma in un massacro». Sulla stessa linea la Repubblica, che in prima pagina parla di «blitz dei corpi speciali», poi pagina 2: «Ossezia, massacrati gli ostaggi». E nel catenaccio: «I soldati attaccano i ceceni: centinaia di morti, molti sono bambini». Un po’ più prudente Libération: «L’assalto alla scuola finisce nel caos». Ma al di là delle sfumature semantiche il concetto è chiaro: la strage è addebitabile all’esercito russo che ha fallito il blitz. Ma è davvero andata così?
Noi giornalisti ci siamo trovati di fronte a due versioni contrastanti. La prima, quella ufficiale: a causare la strage sono stati i terroristi che hanno deliberatamente fatto esplodere due mine alle 13 di venerdì, cominciando a uccidere i bambini. La seconda, filocecena: sono state le forze di cuoio a tendere una trappola ai terroristi come dimostrerebbe il fatto che subito le due esplosioni gli agenti dei reparti speciali hanno fatto irruzione nella palestra sparando e cominciando a liberare i bambini.
Insinuazioni volontarie
Le testimonianze degli ostaggi hanno permesso, la sera stessa del tragico epilogo, di smentire entrambe le versioni: le esplosioni delle due mine sono state casuali e hanno colto di sorpresa sia i terroristi – molti dei quali in quel momento, come rivelerà la cuoca della scuola, stavano mangiando – sia le forze speciali – la maggior parte delle quali, in quel momento, si stavano esercitando nell’altra scuola di Beslan in previsione di un attacco notturno – e si sono precipitate sul posto diversi minuti dopo. E questo spiega perché l’ipotetico blitz si sia trasformato in una battaglia improvvisata di otto ore.
Eppure di questa versione nei resoconti di certa stampa non c’è traccia. Sempre il 4 settembre l’inviato di Le Monde Natalie Nougayrède scrive un articolo in cui viene dato conto solo della versione anti-russa suffragata da selezionate testimonianze, tutte rigorosamente anonime. Come quella di un poliziotto osseto che rivela come un carro armato T-72 ha sparato contro la scuola. E questo proverebbe che le autorità russe, scrive Le Monde «abbiano privilegiato nettamente l’eliminazione rapida dei terroristi, piuttosto che uno sforzo per salvare gli ostaggi». È vero: un carro armato ha sparato, ma i proiettili erano privi di carica esplosiva e servivano ad aprire un varco alle teste di cuoio, non a uccidere gli ostaggi. E il fatto che un rappresentate russo, anonimo, abbia ammesso «di aver studiato la struttura della scuola per vedere se l’edificio crollerebbe in caso di esplosione» rappresenta, secondo il giornale francese, un chiaro indizio sulle intenzioni del Cremlino. Il finale dell’articolo è esemplare: a tarda notte – scrive Le Monde, – «gli sminatori procedevano alla distruzione delle bombe piazzate nella scuola dai terroristi. Queste esplosioni sembravano avere come scopo la distruzione della scuola per coprire di detriti ogni indizio utile per l’inchiesta».
È il sospetto che diventa regola. Peccato che il giorno dopo i giornalisti siano entrati nella scuola, che non era distrutta e dove i segni della carneficina erano tragicamente molto evidenti. Ma a distanza di 24 ore Le Monde insiste: lo squarcio sotto una finestra della palestra dimostra che «l’esplosione è avvenuta all’esterno», perché «i mattoni sono caduti all’interno». Dunque, scrive la Nougayrède, «questo accrediterebbe la tesi di un assalto lanciato dalle forze dell’ordine russe». Ancora una volta vengono ignorate le testimonianze dei sopravvissuti, secondo cui le mine erano state piazzate lungo il perimetro anche all’esterno dalla palestra, come quelle esplose all’una. E poche righe più avanti ricostruendo la tragedia si afferma che alle 13.21 di venerdì, «le forze speciali avevano preso totalmente il controllo dello stabilimento», dunque in soli 13 minuti. Ma se è bastato così poco perché si è combattuto fino a sera? E perché sono stati necessari un’ora e venti minuti per evacuare i primi feriti?
Ancora: secondo Repubblica sono intervenuti «decine di elicotteri». Li abbiamo visti con i nostri occhi: erano due. E sono stati impiegati «centinaia di blindati e carri armati: nessuno si era accorto che mezzo esercito russo era lì» scrive l’inviato Visnetti. I tank erano non più di una ventina. Ancora: «Impossibile immaginare una reazione tanto rapida e massiccia in assenza di un piano già predisposto», chiosa la Repubblica. È vero il contrario: la reazione è stata lenta e disarticolata e i primi a partire all’assalto sono stati i padri degli ostaggi e i soldati di leva, non le teste di cuoio.
Cronache di guerra dall’ufficio
Infine: il 6 e il 7 settembre la Repubblica, Libération e il Figaro descrivono il «j’accuse» di Beslan contro le autorità russe. Titoli drammatici: «Diteci la verità sul massacro. Beslan si rivolta a Mosca» (Repubblica). Testimonianze forti, come quella di Viktor che si sfoga con l’inviato di Libération, Lorraine Millot: «Sono loro i banditi, sono loro i responsabili». Nessuno specifica si è trattato di episodi isolati, perché in quelle ore prevaleva un cordoglio intenso, coinvolgente e il rancore, palpabile, non era rivolto contro Mosca, ma contro i ceceni. Infine citiamo ancora la Repubblica che il 5 ricostruisce la battaglia con un reportage da … Mosca. Sì, scritto da un inviato che a Beslan non è mai andato.
Potremmo continuare con altri esempi, ma ci fermiamo qui. Le nostre critiche hanno toccato grandi giornali europei, per di più di sinistra, come Libération, Le Monde e La Repubblica. Ed è innegabile che la cultura marxista, che ha caratterizzato la formazione giovanile di molti giornalisti europei, spinga in questa direzione. Ma in altre circostanze sono stati media di destra a proporre una lettura forzatamente ideologica – e dunque non veritiera – della realtà (ad esempio Fox News durante la guerra in Irak). Il dramma è che questo virus sta contagiando sempre di più la professione, erodendone lentamente la credibilità. Denunciarlo è un dovere per chiunque, a destra e a sinistra, continui a credere in un’informazione corretta.