I dati mostrano in modo incontrovertibile quanto un numero crescente di persone usi i social media per accedere alle news e alcune nuove ricerche confermano ulteriormente questo scenario. Uno studio recente del Pew Research Center, ad esempio, ha mostrato come la maggioranza dell’utenza di Facebook e Twitter (63% del campione analizzato) utilizzi queste piattaforme come fonte di informazione. Il numero è molto interessante soprattutto se visto in prospettiva, dato che è visibilmente più alto del 47% del 2013.
Google, grazie a Google News, è notoriamente riuscita a ottenere a sua volta grande successo anche nel settore dell’informazione. Le grandi aziende mediatiche, dal canto loro, sono state molto lente ad adattarsi a questi trend e alcune imprese della vecchia guardia, come New York Times e National Geographic, hanno recentemente stretto delle partnership con Facebook per pubblicare direttamente i propri articoli sul social media, mentre altre, come il Financial Times nel Regno Unito, La Stampa in Italia ed El Pais in Spagna si sono unite alla “Digital News Initiative” promossa dal colosso di Mountain View.
Questi accordi sono davvero un patto con il diavolo? È ancora troppo presto per dare una risposta definitiva, anche se alcune rughe di preoccupazione sono già apparse sui volti dei più noti pessimisti dei media, facendoli sembrare più vecchi. Di sicuro, però, i pericoli più gravi riguardano la possibilità che dinosauri mediatici indipendenti, come gli editori di giornali, possano finire tra le braccia di questi “giganti adolescenti”, per usare la definizione di Natascha Just, ricercatrice dell’Università di Zurigo che descrive in questo modo aziende tech come Amazon, Facebook o Google.
Ad ogni modo, sappiamo anche che chi consuma le notizie principalmente via i social media corre il rischio di chiudersi dentro un bozzolo che Eli Pariser ha descritto qualche anno fa come “Filter Bubble” (“la bolla dei filtri”, ndr), delegando ad altri, alle scelte dei propri contatti Facebook e agli algoritmi che reggono il social media, la decisione su quali bit di realtà debbano essere letti. Nel lungo periodo, questo finirà per influenzare anche quali media avranno visibilità e, in modo ancora più cruciale, il modo in cui i brand mediatici saranno percepiti dai lettori.
Parallelamente, il Pew Research Center ha raccolto anche alcuni dati interessanti per quanto riguarda la fiducia riposta nei media. Il team di ricercatori, guidato da Amy Mitchell, ha analizzato a questo proposito la credibilità di alcuni media statunitensi molto noti in tre diverse fasce di età, i “Millennials” (18-33 anni), la “Generazione X” (34-49 anni) e i “Baby Boomers” (over 50 anni): sorprendentemente, la credibilità riposta nei confronti delle testate analizzate è equivalente tra le diverse generazioni. Meno sorprendente, invece, è quanto sia bassa la credibilità in questione.
Tra i media che, secondo lo studio Pew, godono di “più fiducia che sfiducia” vi è anche Google News, al fianco dei “soliti sospetti” come New York Times, Washington Post e i maggiori network televisivi, comprese Cnn e Bbc. Gli americani sostengono invece di non fidarsi di BuzzFeed o del talk show condotto dal populista di destra e star della radio Rush Limbaugh. Il modo in cui è stata posta la domanda di ricerca – ai partecipanti al sondaggio è stato infatti chiesto se si fidano o non si fidano di un particolare brand rispetto agli altri – punta direttamente ai livelli bassissimi di credibilità giornalistica raggiunti decennio dopo decennio, sfortunatamente non solo negli Usa.
A questo punto si potrebbe assumere realisticamente che questa perdita di credibilità riconosciuta sia a tutti gli effetti anche una perdita di fiducia, una situazione che si traduce inevitabilmente in una sempre più decrescente predisposizione a pagare per i prodotti giornalistici. Come è stato possibile che una professione che, per definizione, deve alzare le proprie antenne per intercettare il rumore dei nuovi trend, possa aver sottostimato questi segnali così ovvi e così a lungo?
Molti giornalisti sembrano continuare a ignorare l’evidenza di come la loro casa sia in fiamme, nonostante gli attacchi contro i media mainstream sul web e nonostante il fatto che non più solo gruppi estremisti come la Pegida (Patriotic Europeans against the Islamisation of the West, ndr) siano scesi in piazza contro la “stampa che mente”.
Il seppellimento collettivo delle teste sotto la sabbia si potrebbe spiegare solo con il sostegno della psicologia sociale e la behavioural economics: forse i giornalisti stessi stanno lavorando intrappolati a loro volta in una “filter bubble” e forse proprio per via del fatto che molte redazioni non trattano dei media e del giornalismo. Oppure, perché molti giornalisti continuano a coltivare i propri pregiudizi contro i ricercatori e i risultati del loro lavoro, entrambi chiusi nella canonica torre d’avorio.
Una versione piu breve di questo articolo è stata pubblicata in tedesco da Schweizer Journalist n. 8/9-2015. Al momento, l’autore sta svolgendo un soggiorno di ricerca presso la Stanford University finanziato dalla Stiftung Pressehaus NRZ.
Fonti:
Michael Bartel et al. (2015): The Evolving Role of News on Twitter and Facebook, Pew Research Centre
http://www.journalism.org/2015/07/14/the-evolving-role-of-news-on-twitter-and-facebook/
Amy Mitchell et al. (2015): Millennials No Less Trusting (or Distrusting) of News
Sources, Pew Research Center
http://www.journalism.org/2015/07/14/the-evolving-role-of-news-on-twitter-and-facebook/
Eli Pariser (2011): The Filter Bubble. What the Internet is Hiding from You, New York: Penguin Press
Tags:algoritmi, BuzzFeed, Facebook, Filter Bubble, Google, Google News, Instant Articles, La Stampa, Pew Research Center, social media, Twitter