Interazione e produzione: i pubblici della radio digitale

22 Luglio 2015 • Giornalismi, Più recenti • by

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Alex Lawrence / Flickr CC

La partecipazione non è la stessa cosa dell’accesso o dell’interazione. È questa l’idea centrale che guida le esplorazioni in cui si articola Radio Audiences and Participation in the Age of Network Society, volume dedicato alle relazioni tra la radio e i suoi pubblici curato da Tiziano BoniniBelén Monclús. Interrogarsi sui termini e i limiti della partecipazione, sulla relatività di questo concetto, è oggi quanto mai necessario. In un’epoca in cui la retorica della “condivisione” e della “co-creazione” di contenuti è così diffusa e altisonante, un libro che metta in discussione il concetto stesso di parteciapzione, ne cerchi le radici storiche e gli opportuni contesti d’uso rappresenta uno strumento senza dubbio utile.

Tanto più se il suo oggetto di studio e campo di applicazione è la radio, ingiustamente messa in secondo piano dalla ricerca sulle audience partecipative. E invece la radio più di altri media ha saputo adattarsi al nuovo panorama tecnologico, lasciandosi coinvolgere e “usare” dalle nuove audience “connesse” per poi coinvolgerle a sua volta in modi nuovi, aprendo punti di ingresso inediti al proprio pubblico, ma anche non del tutto nuovi, scavando nel proprio passato per recuperare pratiche di partecipazione di lungo corso.

Proprio questo continuo oscillare tra passato e presente, questa tensione soggiacente che si riconosce in ogni saggio, rende le esplorazioni offerte da questo libro così efficaci. Ogni capitolo ci suggerisce di mettere in una prospettiva storica e geograficamente situata anche gli esempi di partecipazione che appaiono più moderni e diffusi. Radio Audiences and Participation in the Age of Network Society, in effetti, oltre che un’esplorazione del concetto di partecipazione nelle sue variegate forme, è anche un’ammonizione.

La stessa che ci accoglie non appena apriamo il libro e ne sfogliamo la bella prefazione ad opera di una firma storica della ricerca sulla radiofonia, David Hendy. Nel riconoscere il valore del libro, infatti, Hendy ne esplicita, condividendolo, anche l’atteggiamento relativista: “sembra che oggi le audience vedano drasticamente espansa la possibilità di determinare cosa andrà in onda. I social media sono alle radici di questo cambiamento […] è giusto essere entusiasti, ma dobbiamo anche essere cauti […]”.

E in effetti se c’è un tratto comune che emerge chiaramente dalla lettura dei diversi saggi è proprio la consapevolezza che “a volte la partecipazione e la co-creazione si riducono, se osservate attraverso una lente di analisi attenta, a semplici sequenze di azioni e reazioni”. È quanto illustra in modo puntuale Tiziano Bonini nell’introduzione al libro: la sua analisi offre una mappatura delle età che la radio ha attraversato, diversificando di volta in volta il suo rapporto con la tecnologia e con il pubblico, e della mutevole relazione tra produttori e fruitori di contenuti. Non un excursus fine a se stesso, ma un necessario punto di partenza che consente a Bonini di tracciare una preliminare distinzione tra pubblico interattivo, caratterizzato da un basso livello di attività, e pubblico produttivo, caratterizzato da un alto livello di partecipazione.

Distinzione, questa, che si concretizza nella divisione dei vari saggi del libro in due macro-sezioni dedicate a questi due livelli di partecipazione dell’audience radiofonica. Una distinzione formale, certo, dato che come ammette lo stesso Bonini stiamo parlando di momenti di uno stesso processo, ma fondamentale per ricordarci che se parliamo di partecipazione ogni volta che osserviamo un “puro movimento di risposta” dell’audience, radiofonica e non, rischiamo di svuotare questo concetto di senso, riducendolo a poco più di una “buzzword” dell’epoca moderna alla stregua di “viral” e “sharing”.

Ecco allora che ad esempio il saggio di Jan Pilsener “Domesticated Voices: Listener ‘Participation’ in Everyday Radio Shows” ci parla dei diversi gradi di “presenza” dell’ascoltatore nei programmi radiofonici, da quella immaginata (ascoltatore modello) a quella concretizzata attraverso canali tradizionali (telefono, lettere) e “digitali” (Internet e siti di social networking). Pilsener sottolinea, attraverso l’analisi di diversi programmi radiofonici del mattino, che spesso ciò che appare o viene “venduto” come “partecipazione”, quando si parla della presenza degli ascoltatori nei programmi, è in realtà semplicemente “interazione”. Tanto più che a volte piattaforme “partecipative” per definizione come Facebook sono paradossalmente relegate a un uso puramente interattivo e molto rigido nel contesto della diretta radiofonica.

Al termine della sua esplorazione del campo, Pilsener arriva a suggerire che forse non stiamo parlando né di interazione né di partecipazione, perché la presenza del pubblico radiofonico in onda è più spesso immaginata che concretizzata e messa al servizio di produttori/conduttori radiofonici che mantengono ancora oggi un un ruolo preponderante nel decidere chi o quali contributi degli ascoltatori andranno in onda. L’idea che siamo di fronte a un’impressione di partecipazione e dunque a una comunità immaginaria di ascoltatori (direbbe Anderson) più che a una reale, dipende forse dal ristretto campione di programmi radiofonici analizzati, ma rimane comunque suggestiva e invita a proseguire nell’esplorazione.

Da parte sua Asta Zelenkauskaite in “Radio Audience Interaction. SMS Mobile Texting vs. Facebook” propone invece un’espansione del concetto di interattività attraverso lo studio comparativo di due tipi di interazione tra radio e ascoltatori attivate da due diverse piattaforme tecnologiche collegate alla radio: Facebook e Sms. Ecco allora che ciò che a molti appare come la “sorella minore e inferiore” della tanto celebrata “partecipazione”, ovvero l’interattività, viene restituita agli onori dell’analisi se non della cronaca, attraverso il caso di studio di una nota radio commerciale italiana, RTL 102.5. L’interattività viene esplorata in una dimensione spazio-temporale in cui le limitazioni e le affordance introdotte dalle due tecnologie, Facebook e Sms, ne determinano il livello e il tipo. Scopriamo così che non solo l’interattività è qualcosa di tutt’oggi perseguito e ricercato in campo radiofonico, molto più della famigerata partecipazione, ma che oltretutto siamo di fronte a un concetto stratificato e per nulla immobile.

41gN8CHtKRL._SX322_BO1,204,203,200_Ci sono poi i saggi che più chiaramente, e non solo per la loro collocazione all’interno del volume, trattano di partecipazione in senso proprio. Come “User-Generated Playlists Radio Music Programming in the Age of Peer-to-Peer Production, Distribution and Consumption” di J. Ignacio Gallego. Qui, al centro del discorso è la documentata influenza delle audience sulla programmazione musicale delle radio, a partire dalla prima “Top 40” del 1955. L’attenzione si focalizza poi sulla storia recente e sull’apparente potenziamento della capacità di influenza creativa e decisionale di un pubblico sempre più “connesso”. Ma la parola chiave è proprio questo “apparente”. Gallego si chiede infatti, e non a torto, se questo potenziamento delle audience non sia più una fiction scritta e promossa dall’industria musicale che non una consolidata realtà.

La co-creazione delle playlist e in generale dei contenuti musicali sembrano infatti andare di pari passo con uno sfruttamento commerciale sempre più esplicito e massiccio delle audience. Senza contare che la situazione attuale più che favorire l’ingresso nel panorama radiofonico musicale di nuovi soggetti e spinte creative sembra invece riaffermare il dominio del mainstream. Anche un saggio dichiaratamente rivolto a studiare l’aspetto partecipativo introdotto dalle nuove tecnologie nel loro incontro con un medium tradizionale come quello radiofonico, mantiene dunque un atteggiamento “cauto” nei confronti della retorica positiva che circonda oggi i discorsi sulla partecipazione.

Al di la della differenziazione e relativizzazione dei concetti di interattività e partecipazione che ritornano nei diversi saggi, a emergere con chiarezza è una nuova categoria di radioascoltatori che non producono solo contenuti (co-creazione), ma anche “social data” configurandosi come un vero e proprio “Networked Public”. È proprio nell’illustrazione attraverso casi concreti di questo concetto di pubblico “in Rete”, introdotto nel 2008 dall’antropologa Mizuko Ito, che si trova il valore più profondo di Radio Audiences and Participation in the Age of Network Society.

La difficoltà di gestione dei siti di social networking e dei flussi dialogici da essi generati nell’ambito dell’organizzazione del lavoro e della produzione radiofonica è confermata anche dallo studio etnografico di Fredrik Stiernstedt riportato in “The Automatic DJ? Control, Automation and Creativity in Commercial Music Radio” che ha preso in esame la più importante radio commerciale svedese, MTG-Radio. Da una parte la digitalizzazione della produzione ha comportato una perdità di professionalità e competenze prima necessarie per produrre programmi musicali, dall’altra l’integrazione dei social media nelle routine produttive ha messo in campo nuove competenze e incentivato il lavoro “creativo”.

Ma davvero si può ancora parlare di creatività quando questa viene sottomessa alla rigidità di una regolamentazione e a precise e strutturate sollecitazioni dall’alto? Nel lasciarci con questa domanda aperta, Stiernstedt mette in evidenza una delle questioni fondamentali collegate all’attuale utilizzo dei social media da parte delle radio in chiave partecipativa: il fatto che una tecnologia abbia delle affordance non significa che queste siano automaticamente attivate, mentre, al contrario, il fattore umano rimane un elemento cruciale nel determinare l’efficacia delle routine produttive volte a stimolare la creatività e la partecipazione,

Radio Audiences and Participation in the Age of Network Society non è però solo un libro sul qui e ora. È anche un viaggio a ritroso nel tempo che ci ricorda come l’interattività e la produttività del pubblico radiofonico non siano caratteristiche nuove, ma siano rintracciabili anche attraverso una ricostruzione storica attenta. Come quella offerta da Guy Starkey nel suo “When Speech Was ‘Meaningful’ and Presenters Were Just
a Phone Call Away. The Development of Popular Radio Talk Formats in Early UK Commercial Radio”, che rintraccia nelle teorie brechtiane della radio come mezzo di comunicazione piuttosto che come medium di distribuzioni di contenuti, la visione o meglio pre-visione della “partecipazione” del pubblico radiofonico letta in termini di produzione collaborativa di contenuti mediali.

Sebbene i tentativi di rintracciare le origini delle attuali piattaforme di social networking e delle pratiche che esse attualizzano in usi e mezzi pre-Internet imponga spesso di forzare le similitudini e sottacere le sostanziali differenze, il caso di analisi scelto da Starkey per sostanziare il suo approccio “storico” è ben selezionato.

Come illustrato dalla sua analisi, infatti, il format della “interactive speech radio” tipico della radio commerciale britannica degli anni ’70, fa un ricorso massiccio alle “telefonate da casa”, declinate in vari “generi” (dal dialogo con l’esperto alla condivisione in diretta di opinioni e commenti su diversi temi), per sostanziarsi di contenuti che oggi chiameremmo “user-generated content”. Dire però che un certo tipo di programmazione radiofonica del secolo scorso richiedeva o si basava su una forma di social networking elettronico ante-litteram, apre naturalmente il campo a diverse critiche, come riconosciuto dallo stesso autore. Soprattutto in relazione ai diversi livelli di privacy e “univocità” garantiti ai radioascoltatori.

È chiaro infatti che la telefonata da casa garantiva un livello di anonimato impensabile sulle attuali piattaforme di social networking con cui i conduttori radiofonici interagiscono e che la produzione radiofonica sfrutta per arricchire i contenuti dei propri programmi. Senza contare che il format della “interactive speech radio” lavorava su un una comunicazione lineare uno a uno che vedeva il “potere” ancora chiaramente nelle mani del produttore, mentre oggi si assiste a una comunicazione molti a molti con un potere molto più distribuito di decidere cosa sia rilevante e cosa, invece, non dovrebbe essere mandato in onda.

In “Radio Ambulante. Narrative Radio Journalism in the Age of Crowdfunding”, Manuel Fernández-Sande introduce invece una prospettiva più economica, focalizzandosi su un nuovo strumento di finanziamento a disposizione delle imprese radiofoniche: il celeberrimo crowdfunding. Chiaramente, qui si parla di un tipo di partecipazione ben diversa rispetto a quelle fino a qui considerate, più legata alla “produzione radiofonica” in senso proprio che alla produzione di contenuti in senso ampio. Il caso di studio di Radio Ambulante, un progetto radiofonico volto a narrare, o meglio a rendere materiale narrativo, vere storie della popolazione latino americana, è un caso di pieno successo dei nuovi modelli di produzione digitale e finanziamento tramite crowdfunding.

Tuttavia, questo esempio evidenzia anche come un modello di produzione partecipativo e “in linea” con i tempi e gli usi degli ascoltatori non necessariamente stimola o accresce anche la partecipazione del pubblico. Se è vero che Radio Ambulante ha efficacemente ridotto i costi di produzione e distribuzione attraverso la digitalizzazione e l’integrazione del suo pubblico come soggetto economico “finanziatore” è altrettanto vero che non rappresenta un altrettanto felice esempio di co-creazione dei contenuti.

Il libro si chiude con una riflessione non solo sul concetto di cultura partecipativa ma anche sulle conseguenze della partecipazione delle audience radiofoniche. In “The Value of Productive Publics in Radio. A Theoretical Frame on Value Creation in Participatory Culture”, Adam Arvidsson si chiede, infatti, cosa comporti la continua spinta alla partecipazione del pubblico in termini di creazione di contenuti e sfruttamento del valore culturale così prodotto. In linea con il resto del libro, sempre in bilico tra osservazione delle dinamiche attuali e riconoscimento dell’origine di queste dinamiche nel passato, anche in questo saggio lo sguardo si sposta sistematicamente avanti e indietro nel tentativo di abbracciare un panorama comprensivo e di contestualizzare i fenomeni che si osservano nel modo più ampio possibile.

Grazie a questa prospettiva multifocale, Ardvisson sottolinea che non è tanto nella produzione individuale o collettiva do contenuti (la celebrata partecipazione in termini di co-creazione) ma è nell’attribuzione di valore a determinati prodotti e processi che risiede il vero potere dell’audience radiofonica oggi (e non solo). Ecco allora che si individua nella capacità dell’audience di attribuire valore e dunque rendere significativi e appetibili determinati contenuti radiofonici piuttosto di altri la vera chiave di volta per comprendere il concetto di partecipazione. Una cultura partecipativa questa che non è certo nuova, ma è anzi connaturata al medium radio.

E dunque nel chiudere Radio Audiences and Participation in the Age of Network Society si ha la sensazione di avere affondato le mani più a fondo nella cultura partecipativa che informa il rapporto tra la radio e le audience, non certo da oggi. Questo non significa che si riemerge dalla lettura totalmente soddisfatti. I casi concreti che ci sono offerti, infatti, contribuiscono sì a sgombrare il campo da alcuni dubbi e dare alcune risposte ma, aprendo davanti ai nostri occhi nuovi scenari e possibilità, introducono anche nuove domande e altrettanti dubbi. Ma forse è anche questo il senso e il valore di un buon libro. Renderci ansiosi di leggerne ancora.

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