Il Corriere del Ticino, 14.10.2006
Nuova biografia del giornalista americano Henry Louis Mencken
Il libro si occupa della star americana del giornalismo Henry Louis Mencken, scomparso 50 anni fa, e ritrae tempi e storie quotidiane dell’America dell’epoca. Considerando gli attuali sviluppi della politica interna degli Stati Uniti l’opera trasmette innumerevoli esperienze di ‘dèjà-vù’.
In America la terza generazione di biografi è alle prese con il giornalista Henry Louis Mencken, scomparso cinquant’anni fa, anche se nel vecchio continente quasi nessuno lo ricorda più. Il volume è da record, e non solo per la quantità di pagine: 662. L’opera di Marion E. Rodgers è una ricca descrizione dei tempi e delle storie quotidiane americane che per analogia richiama quanto accaduto nella politica interna americana dopo l’11 settembre.
Nella prima metà del Novecento si discuteva di teoria darwiniana dell’evoluzione della specie e di fondamentalismo protestante. Di conflitti sul patriottismo e sul ruolo dei media in guerra, ma anche sui diritti femminili, su quelli delle minoranze, o sul proibizionismo e le sue conseguenze per la criminalità. Mencken si esprimeva su quasi ogni argomento e, almeno nella scelta delle citazioni della Rodgers, lo faceva in maniera brillante. Mencken durante tutta la sua vita è rimasto un anticonformista, un cittadino votato all’illuminismo che amava provocare i più ottusi tra i suoi compaesani, che definiva « barbari allocchi di provincia». Credeva incondizionatamente nella libertà: « Nella libertà nella sua rappresentazione più selvaggia », « nella libertà fino ai confini più estremi del fattibile e del tollerabile».
La sua città natale, Baltimora, fu presto troppo stretta al giovane Mencken: così nelle vesti di giornalista scoprì il continente americano e quello europeo prima della Prima Guerra Mondiale. Nessun altro aveva saputo raccontare in modo tanto umoristico e sarcastico la prima metà del ventesimo secolo – l’illuminato e colorito «secolo americano» – con i suoi articoli e le sue opere. Un’impronta simile l’aveva lasciata solo Mark Twain prima di lui.
Ma ad un certo punto della sua carriera il suo pensiero critico fallì, proprio di fronte alla sfida più grande: la Germania nazista. Forse perché da sempre consapevole delle proprie origini tedesche, o perché conosceva personalmente uomini e luoghi, Mencken, nonostante il suo viaggio a Berlino nel 1938 e una cerchia personale di amici alla quale appartenevano molti ebrei di origine tedesca, sottovalutò per lungo tempo Hitler, l’antisemitismo e la fermezza con la quale i nazionalsocialisti disprezzavano la razza umana. Poiché a Berlino esistevano ancora negozi ebrei, Mencken concluse che la situazione era sì drammatica, ma non quanto descritta e rappresentata dai giornali americani. Pur essendo giornalista, egli stesso diffidava dei corrispondenti americani da Londra accusandoli – come peraltro fecero anche il New York Times e altri media americani – di drammatizzazione e sensazionalismo. Proprio perché convinto di smascherare la propaganda del proprio governo e di quello inglese, Mencken seguì la direzione opposta, quella sbagliata. Minimizzò il Male e in seguito tacque a lungo – in una tragica ingenuità. Maneggiare questa realtà dei fatti è stato come camminare su un terreno minato anche per la biografa di Mencken. Fa parte della forza di Rodgers svelare senza riguardo la matassa creata dall’accondiscendenza e dal silenzio di Mencken cercando nello stesso tempo, con la sua sensibilità, di comprendere e scusare il comportamento del suo «eroe», visti i tempi.Mencken non guardò alla Germania «con la ragione, ma con il cuore.»
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MARION ELIZABETH RODGERS, Mencken. The American Iconoclast, Oxford University Press, 2006.