Cosa accomuna Britney Spears, Paris Hilton, LadyD e PapaGiovanni Paolo II? Oppure il praticello del Grütli, l’emergenza climatica, l’aviaria e la moria dei boschi? Di tutte queste personalità e di questi temi si è discusso in occasione del quarto Radiosimposio di Zurigo, definendoli esempi di isteria mediatica collettiva – anche detti, in gergo giornalistico, media hype. Questo tipo di fenomeno si manifesta quando i media dedicano troppa attenzione ad un tema o ad una persona, cioè quando tendono a sensazionalizzare e scandalizzare, con il risultato finale di disinformare il proprio pubblico.
Anche se alla fine del simposio sono emersi più interrogativi che risposte, questo proficuo scambio di opinioni è stato senz’altro positivo. Esther Kamber e Kurt Imhof (Università di Zurigo) hanno offerto una retrospettiva storica: secondo loro l’isteria mediatica collettiva è aumentata in modo impressionante, così come la tendenza dei media a scandalizzare e personalizzare esagerando i conflitti e attribuendo loro significati morali. Le differenze tra la stampa scandalistica e il giornalismo di qualità si sono via via appianate. Vinzenz Wyss (Scuola universitaria professionale di Winterthur) ha sottolineato come «per raccontare delle storie ci vogliono vittime, carnefici, eroi e ciarlatani». Quando essi non esistono, vengono creati dai media. Secondo la filosofa Ursula Pia Jauch (Università di Zurigo) «ogni hype è un piccolo spettacolo da circo», ma anche una «pubblica ed eccitante messa in scena». Dai diversi contributi è emerso che il fenomeno dei media hype, e con esso la distorsione della cronaca, ha radici nell’accresciuta concorrenza tra i media ed è quindi quasi sempre guidato da motivi economici. In sala non si è sentita volare nemmeno una mosca quando Eric Honegger, ex direttore della Swissair, nel frattempo prosciolto da ogni capo di accusa, ha raccontato in veste di vittima la sua esperienza personale con i media. Per il manager, che fino a qual momento aveva goduto di fama e successo, l’esperienza di essere condannato prima ancora di essere giudicato è stata inquietante: «mi sembrava di essere in una situazione paradossale nella quale avrei potuto dire e spiegare qualunque cosa, tanto nessuno mi avrebbe creduto». Egli ha avuto l’impressione di essere «perseguitato dai media e dalla società» e alla fine non ha più semplicemente avuto la forza di leggere quello veniva scritto su di lui. Alla domanda se ritenesse i media credibili egli, con freddezza, ha risposto: «no».
Come l’industria dell’informazione sia mutata insieme al cambio generazionale è emerso in modo altrettanto evidente durante il simposio. Mentre la vecchia guardia dei caporedattori come Peter Studer della tv svizzero-tedesca, Marco Färber della radio svizzera SRG e Markus Gisler del giornale economico Cash condividevano la preoccupazione per questi hypes, i direttori odierni hanno reagito sulla difensiva. Ueli Haldiman della tv svizzero-tedesca SF non voleva nemmeno considerare il problema: secondo lui non c’era bisogno di «tormentarsi» per comprendere i numeri e le statistiche con i quali i ricercatori avevano brillantemente presentato le esagerazioni dei media e i danni da loro causati alle persone e alla società. Il caporedattore Marc Walder del Sonntagsblick ha invece apertamente riconosciuto che i media boulevardistici «vivono di scandali ed emotività». La situazione per questo tipo di media si è fatta critica dal momento in cui anche gli altri hanno iniziato ad agire secondo questi criteri. Felix Müller, direttore della NZZ am Sonntag, a quel punto è passato al contrattacco accusando a sua volta i ricercatori di «creare un hype su un hype», esagerando cioè il problema dell’isteria dei media.
Agli organizzatori del simposio bisogna riconoscere di essere riusciti, per un giorno, a rendere i mass-media, solitamente difficili da penetrare nei propri meccanismi quotidiani, trasparenti. Sarebbe sicuramente di buon auspicio per la loro blasonata credibilità se i media, dietro le quinte, in futuro riuscissero più spesso a creare occasioni di dialogo con il proprio pubblico e con i ricercatori preoccupandosi di più di far capire le proprie logiche di produzione, favorendo così una maggiore trasparenza del loro operato.