“Paragonata con il resto del mondo arabo, la Giordania è un paradiso, ma…”. Questa citazione della giornalista franco-giordana e insider della corte giordana, Randa Habib, riassume l’attuale sviluppo della libertà di stampa nel Paese. La Giordania è considerata un’ancora di stabilità nella regione, ma si trova anche sotto crescente pressione, a causa, ad esempio, dei conflitti nei Paesi limitrofi, il crescente numero di profughi in entrata sul suo territorio e per la carenza d’acqua. Reporter senza frontiere posiziona attualmente la Giordania al 138esimo posto (su 180) nella sua classifica mondiale della libertà di stampa.
Formazione giornalistica ed expertise reale
“Un tempo la professione del giornalista in Giordania era stimata”, ricorda la Principessa Rym Ali, “oggi la scelgono soltanto coloro che non hanno alternative. Vorremmo cambiare questa situazione”. Per promuovere la formazione professionale di giovani giornalisti, la Principessa ha fondato il Jordan Media Institute (JMI) nel 2006. Rym Ali stessa, sposata con un fratello del Re Abdullah II, era stata inviata della Cnn in Iraq e aveva precedentemente lavorato per la Bbc a Londra. Il Jmi offre una formazione giornalistica moderna e differenziata, tuttavia molti dei suoi laureati scelgono una carriera all’estero, per esempio in Arabia Saudita, dove risiedono molti canali televisivi internazionali, oppure in Occidente, dove i giornalisti guadagnano di più e hanno più margine di manovra.
Come spiegazione alla pessima posizione della Giordania nella sua classifica classifica, Reporter senza frontiere cita la permanenza di alcuni temi tabù, su cui i giornalisti giordani non sono autorizzati a scrivere: “la legge della stampa vieta, tra l’altro, la critica alla famiglia reale così come l’offesa dei valori arabo-islamici. Scrivere della corruzione può essere punito con salate pene pecuniarie”, osserva a questo proposito la giornalista Jumana Ghunaimat, secondo la quale “è difficile essere giornalisti in un paese del Terzo Mondo”. Come Direttrice del giornale più importante della Giordania, Al Ghad, Ghunaimat avrebbe il potere di decidere che cosa pubblicarvi, almeno sulla carta: “personalmente sono in una buona posizione per lavorare come giornalista”, racconta Ghunaimat parlando del suo lavoro, “naturalmente ho anche i miei limiti, ma quando mi preme dire qualcosa, la maggior parte delle volte riesco a metterlo su carta in un modo o nell’altro”.
Ciononostante ci sarebbero temi troppo delicati anche per lei. La legge sulla sicurezza di Stato vieta ad esempio di menzionare determinate questioni, ma Ghunaimat crede “che il governo a volte trovi delle scuse per controllare i media”. “A volte i temi sociali si rivelano più difficili di quelli politici”, spiega ancora Ghunaimat, aggiungendo che nel frattempo anche il tema del velo femminile sarebbe diventato tabù, oltre alla critica alla religione, alla famiglia reale o a importanti partner economici come l’Arabia Saudita. Le Ong Reporter senza frontiere e Freedom House condannano questa autocensura dei giornalisti.
Dopo la primavera: l’inverno della libertà di stampa
Secondo la Costituzione, in Giordania vige la libertà di stampa e di parola. Ciononostante, i giornalisti possono essere arrestati per le loro affermazioni e persino portati davanti a un tribunale militare. Da quando la cosiddetta Primavera araba ha scosso l’intera regione, i margini di manovra si sono fatti sempre più ridotti per l’informazione: “i media sono stati la prima vittima”, ricorda Randa Habib. Una serie di nuove leggi o integrazioni alle leggi pre-esistenti sottopongono ora i media a un controllo più rigido: è il caso della “Cyber Crime Law” dell’agosto del 2010, che vorrebbe osteggiare la criminalità sul web, ma che ha portato anche al blocco di alcuni siti di informazione.
Nel settembre 2012, è arrivata un’altra nuova legge, che obbliga ora tutti i siti di informazione a ottenere una licenza da parte della Commissione giordana dei media per poter operare. In seguito, sono stati bloccati centinaia di siti senza licenza. Inoltre, i Direttori devono fare parte dell’associazione giordana dei giornalisti da almeno quattro anni per lavorare legalmente in quella posizione. Reporter senza frontiere fa notare anche come i giornalisti vengano perseguitati, spesso con il pretesto della legge sul terrorismo del 2014, e persino arrestati: dall’entrata in vigore di questa legge, infatti, il governo ha regolarmente istituito dei blocchi contro l’informazione, per esempio nei casi dei conflitti in Siria, Yemen e altri Paesi.
Un altro esempio è anche il caso di Nahed Hattar, l’autore giordano che, nel 2016, aveva condiviso su Facebook una caricatura critica dell’Isis, ritenuta da diversi utenti come come critica all’Islam. Hattar, dopo essere stato arrestato per accertamenti, morì ucciso lungo tragitto verso il processo. In seguito alla sua morte, il governo emise un blocco all’informazione per motivi di sicurezza di Stato.
Nel luglio del 2017, invece, la Commissione dei media ha emesso una nuova legge che prevede l’attribuzione di una licenza solo ai siti di informazione con almeno cinque giornalisti. Il direttore generale della Commissione ha dichiarato al Jordan Times che la legge intende “rafforzare la proprietà intellettuale dei giornalisti”. I giornalisti giordani hanno però criticato questo provvedimento, in quanto esso si applica soltanto ai nuovi siti web e non a quelli già esistenti.
7iber: qualità contro censura
Anche la giornalista Lina Ejeilat è colpita dalla politica mediatica restrittiva e dalla “Cyber Crime Law” del 2010. La giornalista ha fondato il blog 7iber nel 2012, rendendolo una piattaforma mediale di ampia portata. “Il problema è che non si può fare parte dell’Associazione giordana dei giornalisti se si lavora solo online”, spiega Ejeilat, il cui blog è quindi stato bloccato dalle autorità già quattro volte. “Abbiamo semplicemente cambiato dominio”, racconta stringendosi nelle spalle. Il blog è passato da .com a .org, da .net a .me e, data l’inosservanza del blocco, ha dovuto inoltre pagare una penale di 1000 dinar giordani (circa 1200 euro).
I redattori di 7iber non hanno peli sulla lingua, anche quando trattano di temi delicati, come è stato nel caso degli articoli pubblicati sull’espulsione a sorpresa di centinaia di profughi somali dal Paese, una notizia che trovò scarsa attenzione dagli altri media. “Il nostro dossier ha messo in dubbio la credibilità del governo”, ha detto Lina Ejeilat. Per questa storia, al blog è stato assegnato un premio per la miglior campagna multimediale. Secondo la fondatrice, l’idea di bloccare i siti web rifletterebbe lo spirito del momento: “alla peggio possiamo raggiungere il nostro pubblico anche solo tramite Facebook”. Il team di 7iber fa parte di una generazione di giornalisti transnazionali, che comunica con un pubblico internazionale grazie a Internet e che non permette alle direttive del proprio Paese di limitarli. Questi giornalisti raggiungono tra le 250 e le 700mila persone a settimana, così come 300mila follower su Facebook. “Riceviamo spesso candidature di persone che vorrebbero lavorare per il nostro blog. Per noi è importante che credano alla libertà personale e ai diritti dei cittadini”, specifica Ejeilat.
“Abbiamo pure criticato il re”, aggiunge Ejeilat, “finora non siamo stati attaccati personalmente per questo; abbiamo solo subito blocchi e attacchi informatici”. Secondo la fondatrice, il fatto che tutto questo finora funzioni sarebbe dovuto alle ricerche molto esaustive, che non si lasciano confutare facilmente: “ci proteggiamo facendo del giornalismo di qualità”.
Questo articolo è stato scritto durante un viaggio di ricerca dell’Erich Brost Institut/TU Dortmund in Giordania, a cui l’autrice ha partecipato a dicembre del 2017. Articolo tradotto dall’originale tedesco da Georgia Ertz