Nell’ultimo decennio, un numero sempre maggiore di giornalisti che si occupano di questioni ambientali sono stati aggrediti, imprigionati o uccisi. Le conseguenze pratiche e psicologiche di questi attacchi sono profonde. Ne abbiamo parlato con Eric Freedman, autore di un recente studio sul tema, e Meaghan Parker, Direttrice esecutiva della Society of Environmental Journalists.
Lavorare sulle questioni ambientali può essere molto pericoloso per un giornalista. Alla fine di agosto, Reporter senza Frontiere (RSF) lanciava l’allarme in merito agli abusi commessi sui “giornalisti ambientali”. Almeno 20 di loro sono stati uccisi negli ultimi dieci anni, secondo l’Ong, che denuncia anche 53 violazioni della libertà di stampa commesse dal 2015. Stando ad altre fonti, 40 reporter sarebbero morti tra il 2005 e il 2016.
“Il numero di giornalisti ambientali aggrediti o uccisi è in aumento da una decina d’anni”, conferma all’EJO Eric Freedman, direttore del Knight Center for Environmental Journalism dell’Università del Michigan e autore di uno studio dedicato a questa problematica.
Le esazioni avvengono in tutto il mondo, ma sono particolarmente frequenti in Asia e in America. Questi due continenti concentrano infatti il 66% degli incidenti registrati, secondo RSF. Con quattro giornalisti uccisi e quattro aggressioni violente, l’India arriva in testa alla classifica, seguita da Colombia, Messico, Filippine e Birmania.
La “mafia della sabbia”
Perché tutta questa violenza? “Le controversie ambientali implicano spesso degli importanti interessi economici, delle battaglie politiche, delle attività criminali e insurrezionali, della corruzione”, spiega Eric Freedman all’inizio del suo studio. I giornalisti che indagano su queste questioni sono di conseguenza più esposti al pericolo rispetto ai loro colleghi. In India, quasi tutti i casi di esazione sono legati alla “mafia della sabbia”, il nome con cui vengono chiamate le potenti reti criminali implicate nell’estrazione illegale di sabbia destinata all’industria edile.
Gli autori degli attacchi non provengono però esclusivamente dal mondo criminale. “I giornalisti vittime di aggressioni che ho intervistato designano diversi mandanti: aziende, polizia, forze armate e residenti arrabbiati”, specifica Freedman.
Se i pericoli legati a questa tematica appaiono evidenti, come spiegare l’aumento delle aggressioni? Per Freedman, la colpa è innanzitutto dei governi, la cui “mancanza di volontà e incapacità di arrestare e punire gli autori delle violenze hanno permesso loro di agire impunemente in buona parte del mondo”.
Repressione “legale”
La violenza fisica non è l’unico modo di ridurre i giornalisti al silenzio. RSF ricorda che questi “possono ritrovarsi facilmente sul banco degli accusati, sulla base delle legislazioni sulla diffamazione”. La più comune violazione della libertà di stampa subita dai giornalisti ambientali rimane comunque l’arresto. In Canada e negli Stati Uniti, ad esempio, decine di reporter sono stati arrestati tra il 2016 e il 2020, mentre coprivano le proteste ambientali contro la costruzione di gasdotti e di una grande diga idroelettrica su terre ancestrali.
Abusi e molestie avvengono anche in rete. Negli Stati Uniti ad esempio, i giornalisti sono “costantemente molestati online, in particolare quando coprono dei soggetti come il cambiamento climatico”, spiega Meaghan Parker, direttrice esecutiva della Society of Environmental Journalists (SEJ).
Conseguenze profonde
Queste esazioni hanno delle conseguenze durature. Nel suo studio, Eric Freedman ha esaminato gli effetti psicologici e professionali delle aggressioni perpetrate contro i giornalisti ambientali, basandosi sulle interviste di 11 vittime.
“Gli effetti psicologici comprendono la depressione, il disturbo da stress post-traumatico e la tossicodipendenza”, spiega il professore. “I giornalisti coinvolti rischiano anche di perdere il proprio lavoro e possono subire delle pressioni da parte dei loro superiori”. Freedman ha anche osservato che, generalmente, le vittime di aggressioni non cercano aiuto, ciò che attribuisce a un certo “machismo” tipico della professione: “indipendentemente dal sesso, i giornalisti si considerano spesso delle persone resistenti e capaci di lavorare in condizioni difficili”.
Conseguenze psicologiche di questo tipo e reticenza nel chiedere aiuto sono state osservate anche nei giornalisti inviati nelle zone di guerra, anche loro molto esposti al pericolo e ai traumi. Eppure, la situazione non è del tutto identica. “Contrariamente ai giornalisti ambientali, i reporter di guerra sono molto più vulnerabili alla violenza indiscriminata, come per esempio un bombardamento”, puntualizza Freedman: “non sono attaccati in quanto giornalisti, ma perché si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato. È anche il caso di coloro che coprono le catastrofi naturali”.
Formazione, protezione e dissuasione
Per prevenire e minimizzare i rischi, i giornalisti possono seguire dei corsi, come quelli offerti dalla SEJ, spesso in collaborazione con altre organizzazioni di giornalisti. “L’anno scorso, la SEJ ha lanciato un workshop sulla sicurezza, che forniva consigli pratici per stare al sicuro in situazioni pericolose, dagli incendi boschivi agli uragani alle zone di conflitto, e una guida per proteggersi dalle molestie online. Forniamo anche risorse per affrontare i traumi”, spiega Meaghan Parker.
Secondo Freedman, questi corsi possono dare una “certa preparazione” ai giornalisti, ma questo non è sufficiente: “la protezione passa anche attraverso la dissuasione. I governi devono impegnarsi per arrestare e punire severamente chi aggredisce o uccide dei giornalisti”.
Giornalismo ambientale, di cosa parliamo?
“In passato, il giornalismo ambientale era associato principalmente alla fauna selvatica e all’inquinamento”, spiega Meaghan Parker. Nel tempo, quest’interpretazione restrittiva ha assunto un significato più ampio. “I temi trattati comprendono ora tutte le risorse essenziali per la vita, come il cibo, l’acqua, l’aria e l’energia”, continua la direttrice della SEJ. “Queste fanno parte dell’ambiente e sono anche influenzate dall’attività umana. Senza queste risorse, non ci sarebbe vita sulla terra. Per questo motivo, i giornalisti ambientali raccontano le storie più importanti del mondo”.
Articolo tradotto dall’originale francese
Tags:clima, giornalismo ambientale, libertà di stampa, mutamento climatico, violenza contro i giornalisti