Secondo l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani, ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione, di espressione, e di ricevere e diffondere informazioni attraverso ogni mezzo e senza frontiere. L’ultimo report del Committee to Protect Journalists (CPJ), organizzazione no profit statunitense che promuove la libertà di stampa nel mondo, restituisce però una fotografia diversa: 10 paesi infrangono gli standard internazionali violando o limitando pesantemente l’indipendenza dei media e intimidendo i giornalisti anche attraverso la sorveglianza digitale e la reclusione. Questi 10 sono, di fatto, i luoghi peggiori al mondo per l’informazione. Internet, utilizzato come via alternativa per il consumo di notizie soprattutto estere, è anch’esso minacciato e limitato dal controllo e dalla censura di regimi autoritari.
Media controllati dal governo: Eritrea, Corea del Nord e Turkmenistan
L’Eritrea, ad esempio, è un regime dittatoriale nel quale non esistono libertà politiche, potere giudiziario e fonti di informazione indipendenti. I media radiotelevisivi e le testate giornalistiche statali seguono la linea politica del governo per paura di ritorsioni. Secondo il monitoraggio del CPJ , è il paese dell’Africa Sub sahariana a incarcerare più giornalisti ogni anno e senza un processo: sarebbero sette quelli morti nelle mani dello stato. In Corea del Nord l’informazione è regolata direttamente dalla Central News Agency (KCNA) e si concentra sulla copertura delle dichiarazioni e delle posizioni della leadership di Kim Jong Un. Spesso ai corrispondenti internazionali, se non detenuti o espulsi, è negato l’accesso al paese. Nel 2017 due giornalisti sudcoreani sono stati condannati a morte senza possibilità di appello per aver reso un’immagine del paese “distorta” nella loro copertura. Anche In Eritrea, dove dopo l’apertura dei confini con l’Etiopia, sono stati riconosciuti ad alcuni giornalisti stranieri documenti speciali per entrare nel paese, l’accesso della stampa estera rimane comunque strettamente controllato.
Il regime di Berdymukhamedov in Turkmenistan non differisce molto dai primi due: il governo reprime le voci indipendenti e gode di un controllo assoluto sui media, utilizzati per promuovere il culto della personalità del Presidente. Nel 2018, una corrispondente sotto pseudonimo di Radio Free Europe è stata incarcerata e minacciata con false accuse dalla polizia per aver scattato alcune foto a una cerimonia di commemorazione nei sobborghi della capitale Ashgabat. Alcuni media indipendenti focalizzati sul Turkmenistan operano in esilio, soprattutto via web: anche in questo caso però sono stati riscontrati numerosi casi di intercettazione da parte dello stato, che ha la facoltà di interrogare chiunque acceda o tenti di accedere ai siti. Dal febbraio 2019, infatti, come riporta Radio Free Europe, le autorità turkmene stanno cercando sempre di più di adottare tecnologie per monitorare e sorvegliare le comunicazioni satellitari e internet.
Molestie, detenzione arbitraria e hacking mirato
Il report non fornisce dati confortanti anche in merito alla situazione in Medio Oriente. In Arabia Saudita il regime rimane molto repressivo e imbavaglia la stampa attraverso leggi anti terrorismo e contro la criminalità informatica. Secondo il monitoraggio del CPJ, nel dicembre 2018 erano 16 i giornalisti detenuti nelle prigioni saudite, cresciuti poi a 25 nella prima metà del 2019. Alcuni mesi fa il Guardian ha ottenuto, attraverso un leak, referti medici che testimoniano le torture e i maltrattamenti subìti da alcuni oppositori politici – fra i quali anche giornalisti – nelle prigioni del paese. La situazione è grave anche in Iran, dove nel gennaio di quest’anno la magistratura ha condannato un giornalista a scontare cinque anni di carcere per aver pubblicato alcuni pezzi che svelavano l’esistenza di presunti casi di corruzione nel governo. L’accaduto, così come emerge dal report, ha come cornice una società dell’informazione definita da paura, molestie e dall’applicazione di pene detentive nei confronti degli operatori dell’informazione e delle loro famiglie. Molestie, raid domestici, sequestri di attrezzature e sorveglianza fisica e online sui giornalisti caratterizzano l’informazione e la libertà di espressione anche a Cuba.
La Repubblica Popolare Cinese rappresenta invece un caso sui generis, senza paragoni. Possiede l’apparato di censura più esteso e sofisticato del mondo e, secondo stime del CPJ, è uno degli stati in cui vi è il maggior numero di giornalisti detenuti (48 nel 2018). I siti web e i social media che forniscono notizie devono essere esplicitamente approvati dalla Cyberspace Administration of China, mentre il Great Firewall censura tutti gli altri, nazionali o internazionali. Per informarsi online una buona parte dei cittadini cinesi fa uso delle VPN, reti virtuali private che permettono di aggirare la censura, anche se nel corso dell’ultimo anno i controlli in merito sono stati molto intensificati. Il CPJ cita anche l’ultimo report del Foreign Correspondents’ Club of China (FCCC) secondo il quale i giornalisti stranieri che operano in Cina sarebbero sottoposti a sorveglianza digitale e fisica, specialmente al confine. Anche in Vietnam il Partito Comunista possiede e controlla le fonti di informazione: la censura nei confronti dei dissidenti è imposta dall’alto sugli editori, le radio e la TV. Un blogger di Radio Free Asia noto per le sue posizioni contrarie al governo, è scomparso dalla Thailandia nel gennaio 2019 ed è stato ritrovato tre mesi dopo in una prigione di Hanoi. La censura in Vietnam è rafforzata inoltre dall’unità di cyber-warfare Force 47 che, come riportato da Reuters, risulta essere stata creata per contrastare online “punti di vista differenti” alla linea politica del governo. A conferma di ciò, FireEye, azienda di sicurezza informatica, ha reso noti i dettagli di alcuni attacchi informatici sponsorizzati dal regime di Hanoi per tracciare gli accessi a determinati siti web di informazione.
Social network come scappatoia alla censura
La Bielorussia di Lukashenko è l’unico stato compreso nell’Europa fisica citato dal report del CPJ. La polizia fa spesso irruzione nelle redazioni per arrestare i giornalisti e blocca siti di notizie indipendenti come Charter 97, fondato dalla giornalista in esilio Natalya Radina. In questo contesto, i cittadini bielorussi ricercano informazioni sui più famosi social network: per questo il governo ha emanato nel 2018 una legge contro le fake news che gli permette di effettuare una supervisione sui fornitori di servizi internet e, fra le altre cose, di condurre sorveglianza digitale sui cittadini. Stessa sorte per il social network Facebook in Guinea Equatoriale, bloccato per circa tre settimane prima della votazione per le elezioni parlamentari e comunali del novembre 2017.
Il report completo del Committee To Protect Journalists è disponibile qui.
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