Corriere del Ticino, 31.12.2009
Marcello Foa fa il punto sugli eventi comunicativi dell’anno che si chiude
Ultimo giorno dell’anno, tempo di bilanci. Come di consueto il Corriere del Ticino propone la sua rassegna di avvenimenti significativi del 2009 nelle pagine di retrospettiva allegate al giornale. Ma che anno è stato per i media? Quali eventi hanno inciso di più in quell’enorme «parlamento mediatico» che è la società dell’informazione? Lo abbiamo chiesto a Marcello Foa, cofondatore dell’Osservatorio europeo di giornalismo di Lugano e inviato de Il Giornale.
L’INTERVISTA
Foa, cominciamo questa ricognizione sugli eventi mediatici del 2009 dai potenti della Terra. Il 2008 fu segnato da Obama. Si può dire lo stesso del 2009? «Questo è stato l’anno in cui il mondo si è accorto che le capacità di comunicazione di Obama non sono sufficienti a garantire una popolarità costante. Qui in Europa abbiamo forse ancora una visione un po’ falsata e Obama è ancora molto popolare. Ma in America gli indici di popolarità sono inequivocabili. Oggi Obama è ai minimi».
Che cosa è successo? «È successo che finché Obama riusciva a parlare in termini generici e a fare discorsi in cui, con grandissima abilità e molto fascino, riusciva a dire tutto e a non dire nulla, tutto andava bene. Non appena ha dovuto prendere delle decisioni concrete e alcune lobby piuttosto potenti in America si sono scatenate contro di lui, messo sotto il fuoco incrociato di una comunicazione avversa, il mito di Obama si è un po’ sgretolato. Il presidente non ha dimostrato quelle virtù da combattente mediatico che invece aveva espresso molto bene in campagna elettorale, quando però i termini del confronto erano ben definiti. Nell’arena politica del confronto tra maggioranza e opposizione, Governo e Parlamento, Obama è stato meno abile di quanto si supponesse. Lo si è visto anche recentemente».
Allude al vertice di Copenaghen? «Copenaghen evidentemente non gli porta fortuna. Perché proprio qui fece una gaffe colossale, qualche mese fa, quando andò apposta a Copenaghen per sostenere la candidatura di Chicago come sede delle Olimpiadi del 2016. Un gesto inusuale, nessun presidente americano l’aveva mai fatto prima. Eppure Chicago è arrivata quarta. Venendo al vertice del clima: l’ambiente è un tema su cui ha puntato molto. E nonostante il suo intervento, la conferenza di Copenaghen è andata male perché non è stato raggiunto nessun accordo».
In Europa due leader che puntano molto sul loro carisma mediatico sono Berlusconi e Sarkozy. Effetto-Obama anche per loro? «Sia Sarkozy che Berlusconi hanno vissuto un anno travagliato (più Berlusconi che Sarkozy) in cui le vicende personali hanno avuto un’influenza notevole sul loro profilo politico. Sarkozy è stato molto criticato in Francia per il tentativo di piazzare il figlio in una posizione di grande responsabilità a Parigi, con un nepotismo che contrasta con la sua immagine di modernità e di leader vicino al popolo che aveva proiettato in campagna elettorale. Poi c’è stato il suo uso disinvolto e, devo dire, fraudolento dei media».
A che cosa si riferisce? «Quando ci sono state le manifestazioni per ricordare i vent’anni della caduta del Muro di Berlino Sarkozy ha rivelato che il giorno in cui il Muro era crollato, lui era lì ad aiutare i manifestanti ad abbatterlo. Ha anche fatto pubblicare una foto che lo ritrae in quella circostanza. I blogger però lo hanno smascherato».
Come? «Le circostanze che Sarkozy aveva indicato – ovvero che aveva sentito al mattino la notizia che il Muro stava cadendo e allora si era recato immediatamente a Berlino – non erano plausibili. La caduta del Muro di Berlino fu infatti improvvisa. Non ci fu nessun preavviso. Avvenne la sera e colse tutti di sorpresa. Perciò Sarkozy non poteva sapere che il Muro sarebbe caduto quella sera. Morale: quella foto è stata chiaramente manipolata».
Con quali effetti per Sarkozy? «Questi episodi, alla fine, nella nostra società della comunicazione passano in modo quasi indolore».
Sono considerati peccati veniali… «Peccati veniali, sì».
Anche quelli di Berlusconi sono considerati veniali? «Anche Berlusconi ha avuto un anno in cui le sue vicende personali sono state in primo piano. Il duello che ha affrontato con Repubblica – anzi, non ha affrontato, perché Repubblica lo ha istigato più volte a rispondere alle famose dieci domande sulle sue amanti – ha visto il capo del governo italiano scegliere di chiudersi. Anziché rispondere e accettare la sfida, ha cercato di negarla. Su questo sono un po’ meravigliato. Un buon comunicatore come Berlusconi avrebbe dovuto capire che quando sei incalzato su un tema preciso da un giornale che non ha nessuna intenzione di mollare la presa, negare o non rispondere è un errore, perché alla fine alimenti il fuoco che ti infastidisce. Sarebbe forse stato meglio che lui affrontasse il problema sin dall’inizio con una linea inequivocabile, tenendo una versione fino in fondo. Così avrebbe rapidamente spento l’incendio. L’epilogo paradossale è che l’ultimo fatto che lo riguarda, il suo ferimento a Milano, dal punto di vista della comunicazione gioverà moltissimo a Berlusconi».
Come mai? «Perché dopo questo fatto appare come un martire. Così, l’anno che era iniziato con molta difficoltà si chiude con molto dolore fisico, ma dal punto di vista della sua immagine lo rende più forte».
A proposito di cura dell’immagine, la cancelliera tedesca Angela Merkel non sembra occuparsene molto, eppure ha brillato più di Sarkozy e di Berlusconi… «Sono perfettamente d’accordo. La Merkel rappresenta un prototipo di leader politico che ogni cittadino europeo con un po’ di equilibrio desidererebbe avere alla guida del proprio paese. È il prototipo dell’antipolitico. Non ha fatto campagna, non parla mai della propria vita personale, è piuttosto prevedibile, è goffa, fisicamente pesante. Ma punta tutto sulla credibilità della sua azione politica, sulla serietà della sua analisi, sulla sua esperienza e i tedeschi l’hanno apprezzata. L’hanno votata con una bella maggioranza. In un’epoca di fortissima spettacolarizzazione, talvolta anche sopra le righe, il fatto che un politico come la Merkel abbia successo è un bel segnale per la salute della democrazia».
Abbiamo parlato dei nostri vicini di casa, ma non ancora della Svizzera. Quest’anno non è stato facile per il nostro Paese gestire la propria immagine internazionale. «Purtroppo già da tempo, almeno dai tempi delle polemiche sull’oro degli ebrei, la Svizzera stranamente non ha capito come certi problemi politici e certe campagne di comunicazione vengono gestiti a livello internazionale. Capita ormai frequentemente che la Svizzera finisca nel mirino di campagne internazionali e ogni volta si fa cogliere impreparata: non sa leggere le mosse di chi ha interesse a indebolirla e avviene c on straordinaria incredibile sistematicità: l’oro degli ebrei, le trattative con l’UE, i ricatti dell’UE su Schengen, gli attacchi dell’America e poi del G20 sul segreto bancario, la politica che ha messo in atto Tremonti per spaventare gli italiani e indurli a chiudere i loro conti in Svizzera… Ogni volta la Svizzera non è stata in grado di leggere le mosse dell’avversario e ha favorito chi voleva danneggiarla. E io mi chiedo perché mai il Consiglio federale ma, in questo caso, anche il Consiglio di Stato a Bellinzona, non si prendono dei consulenti di comunicazione che li aiutino a capire che cosa sta accadendo».
Ci vorrebbero anche da noi gli «spin doctor» (quei professionisti dell’informazione che influenzano i media, non sempre in modo corretto)? «Io sono molto critico sugli spin doctor. Però quando tu sei attaccato dagli spin doctor il tuo modo di difenderti è di fare lo «spin» difensivo. Non devi quindi diventare un manipolatore, ma devi usare delle tecniche che ti consentano di difenderti dalla manipolazione. La Svizzera non l’ha fatto e in questo modo si è fatta colpire più volte».
Come mai? «Lo spiego con due ragioni. La prima è la qualità dei politici in Svizzera. Mi pare che oggi non abbiano la stessa qualità intellettuale, politica e morale dei loro predecessori. La qualità politica del Consiglio federale oggi è piuttosto bassa».
La seconda ragione? «Il sistema politico svizzero è uno dei pochi al mondo davvero democratici: il parlamento di milizia, il frequente ricorso al referendum, un rapporto quasi personale tra i politici e il popolo sono realtà rarissime in altre parti del mondo. Questo ha fatto sì che la politica avesse un rapporto di autenticità molto diretto col popolo. In Svizzera le tecniche di propaganda e di manipolazione, le tecniche di “spin” appunto, sono state usate molto poco. Allora c’è un livello di autenticità-ingenuità da parte del popolo svizzero e delle élites svizzere che è abbastanza naturale. Istintivamente né il popolo né gli eletti svizzeri si aspettano che vengano usate con tanta spregiudicatezza certe tecniche di comunicazione e di manipolazione. Non sono quindi stati sviluppati gli anticorpi. La cosa che mi stupisce è che questo processo di mancato sviluppo degli anticorpi verso l’esterno continui. Come se nessuno a Berna dicesse ai politici: attenzione, se vogliamo difendere gli interessi svizzeri nel mondo occorre avere una squadra di specialisti e di menti raffinate che sanno leggere tra le righe».
Come valuta, dal punto di vista mediatico, il voto svizzero sui minareti? «Vedo un paradosso. L’opinione pubblica svizzera si è preoccupata per le reazioni internazionali, c’è chi si chiede “che ne sarà di noi?” e l’opinione pubblica internazionale, europea in particolare, ha demonizzato la Svizzera in modo molto aggressivo. Addirittura suggerendo la ripetizione del referendum. Mi sembra una violazione dei principi della democrazia elvetica. Io posso non essere d’accordo col voto sui minareti, ma se il popolo svizzero a maggioranza così ha deciso, il verdetto va rispettato. Invece prevale la tendenza a far pressione per bypassare il voto popolare. Mi sembra una tendenza molto inquietante da parte dell’Unione europea. Lo stesso fenomeno è avvenuto con l’Irlanda. Ha detto no al trattato di Lisbona e dopo un anno è stata costretta a ripetere il referendum. Mi chiedo: ma perché? D’altro canto io non sarei così allarmato per questo voto».
Come mai? «Perché mentre le istituzioni europee dei paesi vicini si sono scandalizzate per il risultato del voto, il sentimento popolare lo ha fortemente approvato. Se oggi ci fosse lo stesso referendum in Italia, Francia, Germania o Austria, tutti Paesi confinanti con la Svizzera, sono convinto che il risultato sarebbe uguale o addirittura ancora più netto. Tutto sommato, per concludere, in un periodo in cui la Svizzera è così sotto pressione, con questo voto è diventata più simpatica ai cittadini europei. L’impatto mediatico del voto sui minareti sul fronte popolare è stato buono».
IL CORAGGIO DEI GIOVANI IRANIANI
Rivolta straordinaria e frustrante
Qual è stato l’evento mediatico dell’anno? «Un evento mediatico straordinario e nello stesso frustrante dal punto di vista della comunicazione è successo in Iran. Straordinario perché quando ci sono state le elezioni presidenziali truccate lo scorso giugno, i giovani si sono mobilitati approfittando degli SMS, di Twitter e dei “social network”. Talvolta parlandosi in codice, hanno creato una rete che ha consentito di mobilitare migliaia di persone senza che il regime riuscisse a intercettarli. Questi stessi mezzi, i videotelefonini, le foto scattate con apparecchietti digitali e scaricate subito su Internet o inviate via mail, hanno consentito al mondo di vedere che cosa stava accadendo mettendo il regime in grossa difficoltà».
Evento anche frustrante, diceva. «Sì, perché alla fine il regime è riuscito allo stesso a imporre una censura. Com’era accaduto in Birmania nel 2007, alla fine queste rivoluzioni provocano un grande rumore e un grande fastidio al regime, ma purtroppo non producono nessun risultato tangibile».
Un altro fenomeno mediatico del 2009 è stata l’influenza suina. Lei l’aveva subito definita una grande montatura. «E lo penso ancora. Quando, all’insorgere delle prime notizie, rilasciai un’intervista in tal senso proprio al Corriere del Ticino e ne parlai pubblicamente in altre occasioni ufficiali, diverse persone mi criticarono dicendo che alimentavo tesi complottiste. Oggi anche i più illustri esperti medici riconoscono che come pandemia è stata la più leggera della storia e pertanto tutto quell’allarmismo era esagerato. Continuo a credere che questo allarme sia stato pilotato per ragioni sia politiche che economiche: serviva a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla crisi economica e placare le ansie sulla disoccupazione e sulla crisi finanziaria. Dall’altro lato è stato un business colossale per le imprese farmaceutiche. Ho però l’impressione che alla fine queste considerazioni non prevarranno e non si svilupperà una coscienza che permetterà, la prossima volta, di intercettare i trucchi per tempo».
A proposito di crisi economica: cosa ha generato dal punto di vista mediatico? «Una schizofrenia. Ho l’impressione che noi tutti, esperti di comunicazione, giornalisti e critici, non conosciamo abbastanza certi meccanismi psicologici per condizionare le masse. La crisi economica può essere letta in due modi: concreto e psicologico. Dal punto di vista psicologico l’anno scorso è stato quello della grande paura, c’era il panico, la borsa crollava eccetera. Eppure pochi un anno fa sentivano davvero la crisi. Oggi, invece, abbiamo un impatto reale molto serio. Ma siccome noi viviamo in una società che ormai è stata finanziarizzata, quel che crea ansia e fa titolo è il crollo del titolo di borsa. L’aumento della disoccupazione, invece, crea malumore e rabbia in chi perde il lavoro, ma non sento nessun movimento di indignazione collettivo. Le reazioni dell’opinione pubblica alla crisi economica dimostrano ancora una volta come e perché queste crisi vengono gestite dai politici, ma anche come e perché il popolo le percepisce. Bisognerebbe chiedersi se questo tipo di reazioni sia spontaneo o indotto. Tutto questo dovrebbe essere l’oggetto di uno studio molto approfondito che secondo me non viene fatto in modo sistematico, neppure a livello accademico».
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