Milena Gabanelli e il suo Report, programma tv incentrato su indagini e inchieste in onda su Rai3 dal 1997, sono simboli dell’informazione italiana. Sempre fedeli a loro stessi, Milena Gabanelli e Report hanno raccontano pezzi oscuri d’Italia e hanno vissuto in prima persona le evoluzioni che l’informazione, e la televisione in particolare, hanno affrontato negli ultimi 20 anni e stanno ancora attraversando. Quello di Milena Gabanelli è giornalismo d’inchiesta tradizionalmente inteso, votato per definizione al disvelamento della realtà e di fenomeni complessi, puntando alla ricerca, all’indagine sul lungo periodo e al monitoraggio delle azioni del potere, in favore dei cittadini. Per il giornalismo italiano, questo tipo di approccio alle notizie è sempre stato appannaggio della televisione e proprio Report è uno degli esempi più forti in questo senso.
Il terrorismo internazionale è proprio uno di quei fenomeni che più di tutti necessita del giornalismo al suo massimo per essere compreso al meglio dai cittadini, ma il compito è complesso e rappresenta una delle sfide più potenti lanciate alla professione. In gioco ci sono molti elementi come la propaganda, di cui proprio lo Stato Islamico è un più che abile attore, il fact-checking e la necessità di evitare sensazionalismi e disinformazione. In questo, proprio il tema del terrorismo è cruciale, soprattutto se visto nel contesto più ampio dell’infomazione online. Con Milena Gabanelli affrontiamo tutti questi spunti nell’intervista che segue. Gabanalli sarà ospite della serata pubblica “Quale informazione nell’era del terrorismo? La difficoltà di fare giornalismo tra minacce, paure e disinformazione” in programma all’Usi di Lugano l’8 marzo alle 18. Gli altri relatori saranno Ferruccio de Bortoli (già Direttore del Corriere della Sera) e Marcello Foa, Ceo di MediaTI Holding.
Il terrorismo internazionale, e in particolare le sofisticate tecniche mediatiche dello Stato islamico, sono una sfida costate per il giornalismo e l’informazione. Quali sono, a suo dire, i principali problemi da tenere in considerazione quando si tratta di questi temi così sensibili?
“Primo: la tutela delle fonti. Percepisco la necessità di maggiore prudenza nell’esporre testimoni che non sono in grado di valutare la ricaduta delle loro dichiarazioni. Secondo: la strumentalizzazione. In talune circostanze si rischia di fare da cassa di risonanza alla pura propaganda, e questo è un aspetto abbastanza ‘nuovo’ nel mondo dell’informazione”.
Gli attacchi di Parigi dello scorso novembre, come tutte le notizie di portata globale, spingono al limite le capacità delle redazioni di coprire le breaking news. In occasione degli attacchi nella capitale francese, ad esempio, si sono lette molte notizie imprecise o non verificate correttamente. A suo dire, dal punto di vista delle breaking news, come è cambiata la pratica giornalistica?
“In questo caso non vedo nulla di nuovo rispetto ad altre situazioni di grande impatto. Che sia un atto terroristico o un terremoto, il pubblico vuole essere informato minuto per minuto, quindi di fronte ad una grande domanda, si orienta l’offerta: lunghissime dirette, anche quando non c’è nulla di nuovo da aggiungere, esasperando magari un dettaglio irrilevante e non verificabile, solo per riempire minuti, o pagine. Quando nel 1980 ci fu la strage di Bologna io non facevo ancora questo mestiere, ma abitando in città ho vissuto gli eventi in prima persona. A lungo, come è normale che sia, la notizia ha occupato per molto tempo le prime pagine, l’apertura dei tg, e continui collegamenti in diretta. Pur di avere qualcosa da dire si dava credito a qualunque sciocchezza, alimentando il senso di paura e instabilità. Che è poi l’obiettivo di ogni atto terroristico. La differenza rispetto ad allora, è Internet, ovvero quintali di informazioni in tempo reale, con buone probabilità di confondere quelle buone dalla melassa”.
Il giornalismo televisivo si è dovuto reinventare sulla scia dei cambiamenti imposti dall’ascesa del web negli ultimi 15 anni. Come è cambiato il lavoro della redazione di Report in questo senso?
“Il nostro è giornalismo investigativo e nella sua costruzione è molto tradizionale. Sono cambiati i mezzi con cui si realizza un contenuto, che invece richiede sempre la stessa modalità: trovare le fonti, le evidenze, un filo narrativo. Il tutto esattamente come 100 anni fa. Diciamo che il web consente una maggiore velocità nel fact-checking, e maggiori canali di distribuzione dell’informazione che produciamo”.
“Il caso Spotlight”, che ha vinto l’Oscar come miglior film proprio nei giorni scorsi, ha riportato il giornalismo investigativo all’attenzione del grande pubblico. Salvo poche eccezioni, l’informazione italiana, e i suoi giornali in particolare, non hanno una grande tradizione di inchieste ad ampio respiro svolte seguendo i metodi del team del Boston Globe. Quali sono a suo dire le ragioni di questa mancanza? Sono solo strutturali, oppure anche culturali?
“Il giornalismo investigativo richiede tempo, quindi risorse importanti ed è per questo che è più probabile trovare programmi dedicati sulla tv pubblica. Questo nell’era della velocità e della economicità è già un primo limite. A questo si aggiunge il rischio sostanzialmente certo di beccarsi una causa, una situazione che in Italia può tenere i giornalisti a bagnomaria fino a 10 anni. Solo giornalisti affetti da ‘particolare patologia’ hanno voglia di battere questa strada”.
Le sfide lanciate dal terrorismo internazionale all’informazione
I fatti di Parigi dello scorso novembre sono stati l’ultimo esempio in ordine di tempo di evento di portata globale in grado di fermare completamente l’attenzione di tutto il pianeta e dei suoi media. Gli attentati avvenuti nella capitale francese hanno costretto, di nuovo, gli organi di informazione a ripensare il loro ruolo nell’ecosistema globale, dove i media tradizionali non sono più i soli a dettare i ritmi e i contenuti di quanto raggiunge i cittadini. Le breaking news di questa portata, infatti, avvengono ormai prima al di fuori del controllo dei media tradizionali e spesso, direttamente sui social media. Questa è ormai una realtà consolidata e le testate giornalistiche stanno ancora cercando di trovare la quadratura del cerchio del fare informazione su questi canali, dove cittadini comuni e giornalisti convivono e producono contenuti a ritmo serrato. Per la pratica giornalistica questo si traduce nella necessità di rafforzare la verifica dei contenuti che provengono dai social media. L’European Journalism Centre ha raccolto nel libro Verification Handbook, disponibile gratuitamente anche online, una raccolta di pratiche e consigli su come verificare e soppesare i contenuti Ugc provenienti dai social media.
La corretta analisi di quanto si sta per pubblicare, scrivono gli autori Craig Silverman e Rina Tsubaki, è composta da due elementi:”preparare, formare e coordinare i giornalisti prima che scoppi un emergenza e fornire accesso alle risorse che possono consentire loro di sfruttare al meglio gli strumenti disponibili per compiere le verifiche”. Il segreto è quindi saper combinare le pratiche tradizionali note con l’uso di tecnologie nuove, in grado di rendere il processo veloce e preciso. Reported.ly è una testata americana online che sta sperimentando in modo eccellente in questo senso, sfruttando al massimo l’aggregazione di quanto proviene dai social media in situazioni di crisi, al fine di fornire un servizio di aggiornamento controllato e in grado di “fare ordine” nel rumore dei media sociali.
Sul fronte opposto del problema, rimane il quesito relativo alla propaganda e sul modo adeguato di dare al pubblico notizia dei video propagandistici che lo Stato islamico pubblica proprio al fine di influenzare l’opinione pubblica. Riprendere questi contenuti finisce inevitabilmente per essere una vetrina per questi messaggi o, al contrario, è un modo per dare al pubblico un inquadramento ulteriore? Nei mesi scorsi le grandi testate hanno dibattuto animatamente su quali scelte etiche apportare di fronte all’efferatezza e alla violenza di quelle immagini e decidere, di conseguenza, se pubblicare o meno e – nel primo caso – se farlo con tagli e omissioni. Il prestigioso New York Times, ad esempio, ha deciso di non diffondere nulla, ma Reuters e molti altri hanno adottato scelte diverse. Molte testate hanno utilizzato un approccio molto trasparente, spiegando ai propri lettori le loro scelte. Un approccio serio e di accountability.
Un pezzo di informazione emblematico, che spiega al meglio l’atteggiamento che i media dovrebbero avere di fronte al terrorismo, è stato il “longform” (un articolo online di lunghezza molto estesa, nda) “What ISIS Really Wants” (“Cosa vuole davvero l’Isis”, nda) pubblicato online dal magazine americano The Atlantic. Quell’articolo è forse la rappresentazione migliore di come si dovrebbe fare informazione online su temi complessi e intricati come questi: approfondimento, dati precisi, cura dei dettagli e grafiche interattive per tenere viva l’attenzione dei lettori. Non a caso, da quando è stato pubblicato nel febbraio del 2015, l’articolo ha fatto registrare un milione di visualizzazioni ogni singolo giorno in cui è stato online.
Articolo pubblicato originariamente dal Corriere del Ticino il 5 marzo 2016
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