Questo post è un lavoro congiunto di Federica Cherubini, che al tema ha dedicato la sua tesi di Laurea nel 2007, e di Mario Tedeschini-Lalli, che visse quelle stagioni e ha episodicamente affrontato l’argomento nel suo blog. È pubblicato anche sul blog Giornalismo d’altri.
Prima c’è stato l’annuncio de La Stampa: Anna Masera dal 1 gennaio 2016 è la “garante dei lettori” del quotidiano torinese. Poi è arrivata Repubblica: il neodirettore Mario Calabresi (che da La Stampa – guarda caso – viene) ha annunciato che intende istituire anche lì una figura simile. Ma già da qualche tempo tra gli osservatori di cose giornalistiche in Italia era stato riproposto il tema di figure di garanzia per i cittadini nei confronti delle testate e qualcuno si chiedeva se nelle redazioni italiane sarebbe mai potuta esistere una figura del genere. Beh la notizia è che di figure del genere in Italia ce ne sono state, ben due: proprio a Repubblica e prima ancora al Messaggero. Purtroppo, pur nelle loro diversità, ambedue fallimentari e tramontate da molti anni.
Nella speranza che in una situazione industriale e professionale radicalmente diversa da quella di 20 o 30 anni fa i nuovi tentativi abbiano successo, può essere utile ricordare quelle esperienze e i problemi che incontrarono. Per questo gli autori propongono qualche informazione storica e un po’ di documentazione, con le testimonianze di due protagonisti.
Il primo a provarci fu il Messaggero nel 1986. Il direttore Vittorio Emiliani (qui sotto la sua testimonianza odierna) era stato ispirato dall’esperienza del quotidiano spagnolo El Pais che nel 1981 aveva istituito un Defensor del lector, in realtà inizialmente chiamato “Ombudsman”.
L’ufficio dell’ombudsman, o difensore civico, è nato nei Paesi nordici per “difendere” il cittadino nei suoi rapporti con le amministrazioni e si è poi allargato ad altri Paesi (in Italia ora esistono i difensori civici regionali). A queste figure si ispirarono nel 1967 i giornalisti del Courier- Journal e del Louisville Times in Kentucky, negli Stati Uniti, per affidare a un “Ombudsman” mansioni di “interfaccia critico” dei lettori nei confronti del giornale, seguiti poi nel 1970 dal Washington Post. La cosa si allargò – anche se non precipitosamente: il New York Times creò il suo “Public Editor” solo nel 2003, dopo lo scandalo Jason Blair – dando anche vita nel 1980 a una Organization of News Ombudsmen (ONO) al livello internazionale.
L’idea è che un giornalista di esperienza, indipendente dalla gerarchia del giornale e in collegamento con i lettori, possa indagare su casi piccoli e grandi di presunto cattivo giornalismo della testata e riferirne pubblicamente.
Le modalità di svolgimento del lavoro e le caratteristiche del ruolo variano da testata a testata, ma in generale il lavoro del news ombudsman è spazzare via le barriere fra lettori e redazione, allo scopo di avvicinare i primi ai giornali e viceversa. Criterio fondamentale nella scelta dell’ombudsman è la garanzia di indipendenza dalla gerarchia del giornale. Al New York Times, per esempio, i garanti sono solitamente scelti al di fuori della redazione e con contratti particolari, limitati nel tempo, per evitare sospetti che il garante stia cercando di ingraziarsi l’editore in vista di un futuro incarico:“Il public editor, i cui articoli non sono soggetti all’approvazione di nessun news executive all’interno del quotidiano, né tanto meno da parte dell’editore, può inoltre essere licenziato per due sole ragioni: il venir meno allo svolgimento del suo lavoro e la violazione degli standard etici sanciti dall’editore”.
Tornando in Italia, la ricerca di una personalità indipendente dalla redazione portò Vittorio Emiliani a nominare “Difensore dei lettori” non un giornalista, ma un anziano giurista: l’ex presidente della Corte costituzionale Giuseppe Branca, un personaggio di “grande autorevolezza”, “esterno, ma anche interno al giornale”, “per uscire un po’ dalla corporazione dei giornalisti”. A Branca era affidata una rubrica settimanale, un quarto o una metà di pagina sul giornale della domenica. In essa il difensore dava conto delle rimostranze dei lettori in brevi testi tematicamente scollegati uno dall’altro e le commentava. Non ci sono stati, per quanto se ne sa, iniziative di indagine interna da parte di Branca – anche perché, con esito paradossale, Branca di giornalismo si occupò piuttosto poco.
Da subito, infatti la gran parte delle lettere (sì, quelle di carta con il francobollo sulla busta) riguardò solo marginalmente le cronache del giornale, o meglio da esse i lettori prendevano spunto per avanzare rimostranze o problematiche relative spesso alle pubbliche amministrazioni e al loro rapporto con i cittadini. L’insigne giurista si ritrovò pertanto a svolgere piuttosto il ruolo del Difensore civico, che quello del Difensore del lettore. In alcuni dei casi più clamorosi cercò di spiegarsi pubblicamente:
“Il sig. Alberto [cognome ora omesso] di Palombara Sabina mi chiede un parere su questioni personali (invalido civile proprietario-locatore) . Perciò non posso darglielo: questa rubrica si limita a difendere il lettore contro il giornale”.
Non ci furono molte difese del lettore “contro il giornale”, anche perché i lettori non sembrarono particolarmente desiderosi di farsi difendere: qualche appunto sui refusi o su errori di fatto, qualche critica o dubbi espressi sulla linea politica del giornale, specie nei primi mesi del 1987 dopo il siluramento di Emiliani e la nomina alla direzione di Mario Pendinelli. Proprio poche settimane dopo l’avvicendamento alla direzione, Branca decise di interrompere la rubrica, con una nota molto fredda pubblicata l’ultima domenica di aprile del 1987.
I titoletti degli argomenti affrontati erano: “L’ernia del principe di Edinburgo: una notizia superflua e anche lacunosa”; “Cronisti e crostini” (su un bizzarro refuso); “Un detenuto ‘pericoloso’”; “Errori e inesattezze”; “Quella macchina di Latina”. Branca non fu mai sostituito e passeranno oltre tre anni prima che un altro giornale italiano tenti qualcosa di simile.
Era il 1990 e Repubblica si trovava al centro della cosiddetta “Battaglia di Segrate”, lo scontro cioè tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. Tra le contromisure del giornale diretto da Eugenio Scalfari ci fu la sottoscrizione di un Patto sui diritti e i doveri dei giornalisti di Repubblica, che avrebbe dovuto – fra l’altro – funzionare da argine nel caso la vicenda si fosse risolta con il controllo del giornale da parte di Berlusconi. Il documento enunciava alcuni principi e fissava alcune norme relative al cambio del direttore; al cambio di linea politico-editoriale; alla partecipazione dei dipendenti al capitale; ai poteri del Comitato di redazione (l’organo di rappresentanza sindacale); alla titolarità dell’informazione; ai casi di esclusiva e di incompatibilità e – infine – istituiva un “garante del lettore”.
Il garante avrebbe dovuto essere un giornalista, possibilmente di Repubblica, ma era comunque necessario che non lavorasse per testate concorrenti; sarebbe stato nominato dal direttore “sentito il Comitato di redazione”; avrebbe avuto un incarico annuale non rinnovabile e sarebbe rimasto in carica anche in caso di cambio di direttore. Al garante, si precisava:
“…possono fare appello i lettori che ritenessero violato il rispetto della sfera privata delle persone; della presunzione di innocenza; di razza, colore della pelle e religione, se ad essi fosse stato fatto riferimento senza motivo di pubblico interesse”.
Il garante, se del caso, poteva “trasmettere le sue segnalazioni e raccomandazioni al direttore e, qualora lo riten[esse] necessario al CdR”. A differenza di quanto accadeva al Messaggero e in tutte le testate internazionali che avevano ed hanno questa funzione (a prescindere dal nome: ombudsman, difensore del lettore, mediatore del lettore, public editor…) il procedimento di garanzia di Repubblica era dunque totalmente riservato, non era prevista una ricaduta pubblica del lavoro del garante. Il paragrafo, inoltre, si chiudeva una clausola particolarmente limitativa:
“In ogni caso il Garante si asterrà dell’emettere giudizi di valore sul lavoro dei giornalisti e sulla loro professionalità”.
Comprensibile nel contesto storico, ma destinata a vanificare ogni seria “difesa del lettore contro il giornale”, per usare le parole di Giuseppe Branca. Nel febbraio 1991 Scalfari nominò Piero Ottone, autorevole collaboratore del giornale e del gruppo dopo essere stato direttore del Corriere della Sera. Ottone rimase in carica due anni e mezzo (invece dell’anno previsto), sostituito nel settembre 1993 da Gianni Corbi, che ricoprirà la carica fino alla sua morte, nel luglio 2001. Dopo di lui non ci sono stati garanti dei lettori a Repubblica, nonostante che il patto del 1990 non sia mai stato formalmente revocato, per quanto se ne sappia.
Nel presentarsi ai lettori il 28 febbrario 1991 Ottone spiegò chiaramente che sarebbero rimaste fuori dalla sua cura le questioni “suscettibili di azione giudiziaria” (i legali temevano che un pronunciamento del garante a favore di un lettore potesse essere sfruttato da questi contro il giornale in tribunale), “la linea politica del giornale”, ma anche la semplice correzione degli errori (“basta un correttore”). Ancor più brutale sarà invece Corbi due anni dopo:
“Il Garante deve guardarsi dall’intervenire in tutte le questioni suscettibili di una eventuale azione giudiziaria. Non è compito del Garante, infatti, quello di sostituirsi ai giudici, né tanto meno di comminare nei confronti dei giornalisti censure e condanne che, oltre tutto, potrebbero risultare pregiudizievoli in sede di giudizio”.
Restava teoricamente aperto – per dirla con Ottone – l’esame dei “problemi di convivenza, di razza, di religione, di colore di pelle, di sensibilità, di gusto, di pudore, di pietà umana, coi quali non è facile conciliare il diritto di cronaca”, in una parola “i casi di coscienza”, ma non andò così.
Ottone non ha mai nascosto l’esito fallimentare dell’esperimento e nell’intervista concessa a Federica Cherubini nel 2007 [vedi sotto] sottolineò come le difficoltà fossero principalmente di tre tipi:
“Per prima cosa le richieste di intervento erano poche, per via di quell’humus sociale italiano […] poco propenso a fidarsi della possibilità di veder riparato un torto. Inoltre era difficile capire il confine tra le questioni di rilevanza giuridica e quelle che interessavano solamente il giornalismo. In questo senso era necessario un raccordo tra il garante e l’ufficio legale del giornale. Il terzo problema riguardava l’ambiente tipico dei giornali italiani, e delle imprese italiane in generale; mi riferisco al costume diffuso che fa sovrastare su ogni altra cosa una sorta di senso di fratellanza aziendale, qualcosa che travalica il senso etico. Quel senso etico che dovrebbe prevalere sulla solidarietà aziendale e che invece da noi manca. […] Il garante dei lettori deve entrare necessariamente in polemica con la struttura del giornale, se critica un titolo è come se si comportasse come il direttore-bis, essendo che quel titolo se non direttamente scelto era comunque stato approvato dal direttore. Da noi questa invasione di ruolo è inconcepibile.”
Sarà interessante vedere se nel clima professional-sindacale del 2016 sarà possibile fare quello che non fu possibile fare negli anni ’80 e ’90 del Novecento. E – specialmente – in quale misura le nuove figure de La Stampa e della Repubblica svolgeranno effettivamente un ruolo di “difesa del lettore contro il giornale”, o quanto del loro lavoro sarà piuttosto dedicato al ruolo di “engagement editor”, che pure è stato evocato sia da Masera, sia da Calabresi.
Lo engagement editor è un giornalista che ha il compito di raccordare l’esperienza della testata con quella del pubblico, facilitandone i rapporti, una figura che spesso ha più in comune con i social media o community editor che con i public editor; il difensore o il garante dei lettori può certo con il suo lavoro facilitare i rapporti tra redazione e utenti, ma il suo compito nella prassi internazionale è più preciso e puntuale.
In ogni caso, ben venga una discussione pubblica che aiuti a svelare la “fabbrica di salsicce” dell’informazione, che discuta le scelte tecniche e narrative, se redazioni e singoli giornalisti saranno disposti a rinunciare agli atteggiamenti di “supponenza” e “arroganza”, denunciati da Calabresi:
“Se si sbaglia occorre avere la capacità di correggersi. Proveremo a farlo, in maniera chiara, trasparente e da questo punto di vista sarà necessario anche qui avere una figura sia capace di interagire coi lettori”.
Per avanzare in questa direzione, occorre tuttavia essere disposti a discutere apertamente i criteri etico-deontologici che informano le scelte delle redazioni, le norme di comportamento e il processo produttivo. Solo così sarà possibile affrontare veramente di affrontare – per lo meno – quei “problemi di coscienza” che nel 1991 additava Ottone.
Fonti:
- Estratti di una intervista a Piero Ottone, a cura di Federica Cherubini. Camogli, 8 gennaio 2007
- Estratti di una intervista a Vittorio Emiliani, a cura di Mario Tedeschini Lalli. Roma, 8 gennaio 2016
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