Ferrara – Al Festival di Internazionale di uno dei temi più dibattuti è stato quello della crisi dei migranti e della sua rappresentazione mediatica. Il 3 ottobre, in particolare, si è tenuto il panel “Il porto dei migranti”, proprio nel giorno del secondo anniversario della strage di Lampedusa. Quell’evento viene riconosciuto oggi come uno dei fattori scatenanti dell’attenzione mediatica di massa sul fenomeno dei migranti e come momento topico nell’evoluzione di una questione che continua a porre numerosi interrogativi sul funzionamento dell’Unione Europea e sulla sua effettiva capacità di gestire emergenze umanitarie diversificate.
In questa occasione, il fotogiornalista Olvier Jobard, già vincitore del World Press Photo nel 2006, ha raccontato la sua esperienza, alla luce del suo interesse per il fenomeno migratorio inziato già negli anni 2000 documentando per sei mesi l’intero percorso di Kingsley, un giovane camerunense che riuscì ad approdare in Francia seguendo una delle numerose rotte verso l’Europa: “ho sempre avuto l’idea di capire chi fossero queste persone, al di là delle immagini di folla e delle cifre iperboliche che conosciamo e che i media tradizionali trasmettono”, ha raccontato Jobard a Ferrara.
Di fatto, è proprio la capacità di costruire una stretta e comune empatia tra il soggetto e l’oggetto dell’immagine fotografica a caratterizzare il lavoro di Jobard, come egli stesso tiene a sottolineare: “ho voluto con il mio percorso dare loro dei volti e dei nomi, per identificarli e umanizzarli”. La questione si sposta però anche sulla necessità di trovare una strada coerente che da un lato sia efficace per per la rappresentazione di individui in quanto tali e, allo stesso tempo, per mostrarne la diversità garantita dal contesto culturale e dal Paese d’origine: “ho trascorso del tempo con loro per accompagnarli negli itinerari”, ha spiegato ancora Jobard, “per capire cosa voglia dire essere un migrante e dover approcciare con il nuovo Paese in cui sono finalmente arrivati”.
A Jobard si è associato anche il secondo ospite dell’incontro, Joël van Houdt, fotogiornalista noto al pubblico per aver seguito il difficile viaggio di un ragazzo marocchino verso la Spagna – documentato nel progetto “Entering Europe” – e quello di alcuni afgani verso l’Australia nel reportage “The Dream Boat”: “ho sperimentato con il mio lavoro”, ha raccontato il fotografo olandese al pubblico ferrarese, “immergendomi nella diversità e circondandomi di persone diverse: grazie a questo ho soltanto imparato”.
Joël van Houdt ha tenuto a precisare quale sia il suo ruolo di fotografo, sospeso tra umana complicità in situazioni complesse e forte volontà di racconto e documentazione, al fine dimostrare con finalità deontologiche ed educative un dramma fin troppo idealizzato nell’immaginario collettivo. Il fotografo ha usato il caso del viaggio verso l’Australia come esempio: “il governo australiano ha cercato di de-umanizzare il migrante, nascondendo i loro volti anche nelle trasmissioni televisive”, ha raccontato va Houdt, “io, grazie anche alla penna di un amico scrittore, ho voluto condividere esperienze e storie personali, attraverso le quali ci si può conoscere e capire meglio. Ho cercato quindi di ri-umanizzare i miei compagni di viaggio”.
Proprio sulla gestione controversa del problema dell’immigrazione da parte del governo australiano, è intervenuto anche il vignettista Sam Wallman, autore di un romanzo a fumetti sulle condizioni di vita nei centri di detenzione per migranti e richiedenti asilo in Australia: “il governo, malgrado l’Australia non abbia subito alcuna recessione economica”, ha spiegato Wallman, “guarda ai profughi come potenziali invasori e ha costruito per essi un’isola di reclusione in cui sono diffusi assassini, suicidi e stupri”. E sul proprio ruolo di narratore ha invece affermato: “ho scelto di fare uso delle vignette a fronte della noia diffusa rispetto alle notizie tradizionali. In questo modo i miei contenuti sfuggono ai radar, si insinuano nelle menti delle persone facendole ridere e commuovere, riuscendo a far passare messaggi politici di un certo peso”.
L’importanza di questi lavori e di questi linguaggi emerge chiaramente di fronte alla difficoltà attuale di rappresentare in maniera coerente un fenomeno complesso, spesso costruito a livello visivo e diffuso dall’industria culturale unicamente in funzione della reazione emotiva del pubblico. L’immagine ri-umanizzata della figura del migrante come conseguenza di una documentazione credibile del suo dramma e percorso di vita, diventa oggi, quindi, una necessità indelebile per la nostra società. E per l’informazione.
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