L’Europa sulla carta stampata cresce: aumenta la quantità di discorsi sull’Unione, la capacità di contagiare anche i discorsi di politica interna, la persistenza e la priorità in agenda setting. Soprattutto, nuove sfere semantiche si sedimentano, fino a costruire una cornice interpretativa comune. E’ l’Europa (e la stampa) nell’era della “Austerity”. Basti prendere come campione di analisi i principali quotidiani italiani, ed europei in genere, in un ventaglio di tempo determinato e recente, ad esempio nell’ultimo mese. Difficile non trovare riferimenti all’Europa nelle prime pagine e in quelle a seguire, impossibile sfuggire alla ricorrenza e dominanza di alcuni temi e opposizioni. Uno su tutti, la “austerity” o “rigore” contrapposta alla “crescita”. E inoltre, parole come “stabilità”, “spread”, e attori come “i mercati”. Ancora, un continuo ibridarsi di categorie, termini, tematiche economiche, con quelle politiche. Ma l’Unione della crisi economica è anche l’Europa dei sommovimenti sociopolitici, della crisi delle mediazioni tradizionali, tra cui rientrano gli stessi media generalisti. Perché la carta stampata, già nel pieno di una trasformazione da cui uscirà (se viva) profondamente mutata, mostra tutta la sua limitatezza e la sua distanza da altre forme di comunicazione non mediate.
Pentole e Web
A cominciare dalla rivoluzione delle pentole in Islanda nel 2011, per finire con la marea umana di “que se lixe a troika” a Lisbona il 4 marzo, i movimenti che si articolano dal basso in tutta Europa sviluppano nuove forme di comunicazione rizomatiche e orizzontali, dando vita a linguaggi comuni. Della “rivoluzione” islandese, sulla stampa europea, non sono arrivati che echi lontani, come già abbiamo visto su Ejo. Ma nella prateria del web il caso islandese si è ormai assestato come paradigmatico, configurandosi come l’equivalente europeo di piazza Tahrir. Se già con la primavera araba era stato individuato nei nuovi media uno strumento e un catalizzatore delle proteste (si legga ad esempio The Role of Digital Media del 2011 a firma di Howard e Hussein, che interpretano gli strumenti digitali come una chiave di democratizzazione), i movimenti che hanno preso piede nel vecchio continente consentono di consolidare riflessioni comuni. Lo fa ad esempio il sociologo della comunicazione Manuel Castells, sottolineando la rilevanza delle nuove pratiche comunicative nel far scattare le proteste, pur dovute a una crisi del sistema economico e del capitalismo speculativo, alla indignazione collettiva sommata ai motivi di riscatto individuali. L’innovatività e la diffusione dei movimenti, che in Europa si stanno coagulando principalmente attorno al rifiuto delle politiche di austerità, non si spiega solo con le micce che li hanno innescati, ma soprattutto con le nuove prassi comunicative. Lo dimostra tanto il caso islandese quanto il più recente, quello portoghese. Lo sconfinamento tra luoghi fisici e flussi informativi, che interagiscono e si alimentano senza soluzione di continuità, è il tratto distintivo. Tra la piazza e la prateria del web, la protesta dilaga a macchia d’olio attraverso network sociali in rete e sui territori. E’ la “rivoluzione-condivisione”, per riprendere il titolo di uno studio recente dello European Journalism Centre, “Revolution:Share!”.
Movimenti in Rete
Mentre in Europa le analisi di alcuni politologi, amplificate non di rado dalla stampa, fanno intendere un allarme populismo, connesso al rischio che il fantasma della democrazia diretta scardini le istituzioni rappresentative e metta in discussione quelle dell’Unione, al contempo in rete si diffondono movimenti spontanei contro il rigore, mentre gli stessi partiti tradizionali avvertono il cambiamento e vestono i panni “euroscettici” (si veda la posizione di Cameron per il referendum sull’Ue). Il caso del Movimento 5 Stelle, poi, attira le attenzioni della stampa estera proprio perché inteso come un fattore di destabilizzazione dell’architettura europea e dei fantomatici mercati. Un fenomeno, quello del “grillismo”, che conferma per certi versi la caratteristica comune ai movimenti degli indignati: l’importanza della rete che però non fa a meno dei territori e della riappropriazione degli spazi (si veda il comizio in Piazza San Giovanni). Una recente indagine di Demos, a firma di Jamie Bartlett e della sua équipe, corrobora proprio questi elementi. “Nuovi movimenti politico-sociali pur con posizioni politiche molto diverse – si legge – stanno emergendo in tutta Europa utilizzando i social media, e affermando di fatto una vera e propria sfida alle strutture e ai partiti esistenti. Il Partito Pirata in Germania, o il movimento Occupy, sono esempi di movimenti che hanno utilizzato i social media per crescere rapidamente e aumentare il proprio impatto sociopolitico”. Insomma secondo Bartlett “la risposta del successo è un affascinante e potente mix di retorica anti-establishmenti, nuova tecnologia, vecchie modalità, azione sul territorio”.
Regime di Austerity
E se la multimodalità è la leva per rompere l’isolamento, non stupisce allora che la “autocomunicazione di massa” (per dirla con Castells) sfugga al circuito mediatico tradizionale. In effetti, sin dal caso islandese, fino a quello portoghese, la stampa mainstream appare spesso come la cassa di dissonanza, più che di risonanza, dei movimenti. Se e quando essi vengono rappresentati, la violenza, la rabbia, la conflittualità e in generale la dimensione patemica della narrazione acquisiscono molta più rilevanza rispetto a una indagine profonda delle ragioni delle proteste. Una dinamica non inedita rispetto alle tendenze ricorrenti di rappresentazione del conflitto sulla stampa. Ma l’aspetto più interessante diventa proprio la discrasia tra vecchia e nuova comunicazione: non solo l’utilizzo di nuovi media, ma anche il linguaggio dei media tradizionali, acquisisce a suo modo nuovi tratti distintivi. Eppure raramente i due cambiamenti si incontrano. Piuttosto, si coagulano su fronti opposti. Da una parte i quotidiani tradizionali, anche nelle versioni online, fanno della grammatica dei mercati il proprio linguaggio abituale. L’affollarsi di grafici e di prospetti economici nelle prime pagine diventa ormai una consuetudine, mentre il soggetto Europa ricorre sempre più (di solito a fianco dell’altro, nuovo attore ricorrente: i mercati). L’esito delle elezioni italiane, ad esempio, viene commentato anch’esso sulla base delle connessioni con Europa e mercati, mentre la Germania e altri attori compaiono (anche prima del voto) sulla scena politica italiana, e viceversa. L’austerity, oltre che un regime economico, acquista tutta la densità di un vero e proprio regime di significazione. Dall’altra parte però, questa Europa che conquista sempre più spazio e rilevanza sulla stampa mainstream europea, corre veloce e parallela rispetto alle istanze politico-sociali cosiddette “anti-austerity”. Quando finalmente pare consolidarsi una dimensione europea sulla stampa, allo stesso tempo l’interconnessione economica risulta l’aspetto dominante (confermando curiosamente sul piano della comunicazione il cosiddetto paradigma funzionalista dell’integrazione). Gli elementi sociali e la costituzione di una integrazione dal basso, invece, si realizzano proprio e paradossalmente con lo sviluppo di movimenti antirigoristi. Dalle piazze islandesi fino a quelle portoghesi, passando per il web, nuove forme di comunicazione costruiscono nuove identità.