Una panoramica sull’avanzata dei paywall

14 Maggio 2014 • Economia dei media • by

Un numero sempre crescente di testate online sta sperimentando con i paywall, ma nonostante questa costante crescita, la ricerca accademica su questo argomento è ancora agli inizi. Uno studio, condotto da Merja Myllylahti (Auckland University of Technology, Nuova Zelanda) e pubblicato su Digital Journalism, cerca ora di restringere questo gap di conoscenza. Il paper ha considerato l’impatto di differenti modelli di paywall sui ricavi di aziende mediatiche negli Stati Uniti, nel Regno Unito, Finlandia, Slovacchia, Slovenia, Polonia, Australia e Nuova Zelanda. Anche l’Ejo, qualche mese fa, ha pubblicato una panoramica simile, disponibile qui.

L’analisi di Myllylahti ha considerato nove casi di gruppi editoriali e delle relative testate, alcune note, altre meno: New York Times Group/NYTimes (Usa), Pearson Group/Financial Times (Uk), Piano Media (attiva in Slovacchia, Slovenia e Polonia), News Corp/Times e Sunday Times (Uk), News Limted/The Australian (Australia), Fairfax/Australian Financial Review (Australia), National Business Review (Nuova Zelanda), Sanoma Group/Helsingin Sanomat (Finlandia) e Alma Media/Kauppalehti (Finlandia).

Fino a questo punto, l’interesse accademico nei confronti dei paywall si è concentrato principalmente sulla propensione dei lettori a pagare per le notizie online e il consenso generale della ricerca fin qui è riassumibile con il fatto che vi sia complessivamente poca motivazione, da parte dei lettori, a pagare per le news su Internet. La ricercatrice fa riferimento a diversi studi precedenti, i quali sostengono che i lettori non considerano le news come portatrici di un “valore unico” e come tali esse non possono essere considerate la base di un modello di business economicamente di valore. In alcuni casi, comunque, è stato riscontrato che il pubblico è invece disposto a pagare per le notizie online se percepisce che vi sia una minaccia imminente per la sopravvivenza della testata giornalistica che fornisce loro abitualmente l’informazione.

Lo studio ha definito i paywall come un “sistema che impedisce ai lettori di accedere ai contenuti di un sito web senza un abbonamento a pagamento” e che come tale differenzia “il contenuto a pagamento da quello liberamente disponibile online”. Inoltre, sono stati (re)identificati quattro differenti tipi di paywall, in concordanza con ricerche e analisi precedenti: quelli “hard/full” che non consentono alcun accesso senza abbonamento; quelli “soft”, che offrono alcuni contenuti gratuitamente; quelli “metered”, che garantiscono un numero limitato di articoli gratis e i “freemium”, dove solo i contenuti “premium” richiedono un pagamento.

I paywall si sono sviluppati molto a partire dal 2012 mentre l’industria dei media cercava di fronteggiare le pressioni dell’era digitale. In questo scenario si è visto come i gruppi mediatici perdano pubblicità e introiti dagli abbonamenti su carta e le loro piattaforme digitali molto spesso non sono in grado di rispondere alle perdite cartacee. Da questo punto di vista, lo studio di Myllylahti sottolinea come “ogni dollaro ottenuto dalla pubblicità digitale è il risultato di a una perdita di 7 dollari sulla carta”.

I risultati dello studio indicano che gli abbonamenti digital-only rappresentano circa il 10% dei ricavi complessivi delle testate analizzate. Il tipo di paywall, inoltre, non sembra di avere un effetto significativo su queste percentuali. Per esempio, il paywall di tipo “metered” del New York Times ha garantito al giornale il 7,2% dei suoi ricavi complessivi. Per il Times inglese, che ha invece un paywall di tipo “hard”, la percentuale si attesta all’8.9.

La ricerca ha anche riscontrato come i giornali finanziari abbiano generalmente tariffe più alte rispetto a quelli generalisti. Nel caso del Financial Times, in particolare, i ricavi da paywall sono più alti e raggiungono il 13% del totale. Anche questo aspetto non stupisce: le testate economiche hanno più clienti corporate e sono quindi più portate a offrire contenuti di nicchia a un prezzo premium. Sono stati riscontrati anche alcuni esempi di erosione di prezzi dei paywall. L’Australian Financial Review e il New York Times, ad esempio, hanno abbassato il prezzo dei loro abbonamenti digitali con lo scopo di cercare di aumentare le loro readership online.

Il caso di Piano Media, invece, offre un esempio efficace di paywall nazionale: l’azienda, infatti, fornisce agli editori soci dei sistemi di pagamento. Al momento, i suoi servizi sono adottati da ben 25 gruppi mediatici in Slovacchia, Slovenia e Polonia e offrono ai lettori i contenuti di diverse testate per una quota mensile unica. I ricavi sono divisi tra i diversi partner e l’azienda stessa, che tiene il 30% del totale. Lo studio di Myllylahti ha evidenziato come a questo modello occorrano grandi numeri di lettori per generare ricavi sostanziosi.

Nel complesso, la ricerca suggerisce che i paywall creano senza dubbio introiti aggiuntivi per le aziende mediatiche, ma non riescono ancora a offrire un business model affidabile nel breve periodo. Per attirare un numero maggiore di lettori, infatti, le edizioni online sono spesso costrette ad abbassare i prezzi per l’accesso ai contenuti, contribuendo a erodere eventuali ricavi digitali, come testimoniato dai due casi citati in precedenza. E mentre alcuni giornali dichiarano come il segmento dei loro lettori digitali a pagamento stia crescendo, la loro esperienza contraddice quanto riscontrato in ricerche precedenti. Negli Usa, ad esempio, i ricercatori hanno riscontrato che i lettori preferiscono le edizioni cartacee e sono piuttosto riluttanti a pagare per le news digitali.

Uno dei problemi sottolineati nello studio di Myllylahti ha a che vedere con il fatto che i paywall sono spesso penetrabili e sempre più morbidi. Per esempio, molti articoli sono accessibili attraverso i motori di ricerca o i link condivisi sui social media. Inoltre, sono i giornali stessi che, molto spesso, disattivano i loro paywall in occasione di eventi catastrofici come l’uragano Sandy negli Usa o le Olimpiadi nel Regno Unito. Questo porta a degli effetti paradossali: i giornali non riescano a monetizzare dai loro prodotti digitali durante i picchi di interesse, ma rendere le notizie gratis fa crescere i click e, conseguentemente, gli introiti da pubblicità.

Articolo tradotto dall’originale inglese

Photo credit: Tax Credits / Flickr Cc