La fine dell’età dei lumi del giornalismo


19 Ottobre 2016 • Cultura Professionale, In evidenza • by

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Pixabay / CC0 Public Domain

Una versione leggermente differente di questo articolo è stata pubblicata in tedesco dalla Neue Zürcher Zeitung l’1 ottobre 2016

I segnali d’allarme sono stati ignorati troppo a lungo. Il giornalismo è in pericolo e sta perdendo la lotta nel mondo digitale contro i fornitori di propaganda. Da quando i sostenitori del movimento d’estrema destra tedesco Pegida hanno cominciato a gridare “Lügenpresse” (“stampa bugiarda”) per le strade della Germania, il campanello d’allarme ha iniziato a suonare e la perdita di fiducia nel giornalismo è diventata evidente. La scelta lessicale dei militanti di Pegida, ad ogni modo, è fuorviante: solo poche redazioni diffondono notizie false di proposito.

L’accusa alla “stampa bugiarda” è inoltre essa stessa falsa: chiunque adotti il gergo neonazista, dipinge inevitabilmente la realtà come se fosse o bianca o nera, anche se sarebbe più opportuno differenziarne le sfumature di grigio. Ci sono però anche altre ragioni per cui ora sembriamo vivere in “tempi post-fattuali”, come ha detto anche la cancelliera tedesca Angela Merkel di recente. La cosiddetta “economia dell’attenzione” in cui stiamo vivendo si sta trasformando piuttosto rapidamente in una ”economia della disinformazione”, in cui alcuni attori traggono grandi benefici dalla diffusione massiccia di menzogne, teorie del complotto e altre stupidaggini, in particolare sfruttando la potenza dei social media.

Questo articolo vuole riassumere alcune recenti scoperte degli studiosi dei media in questo campo, risultati che rivelano anche i rischi connessi e i danni collaterali delle tecnologie moderne della comunicazione. Almeno in Germania e in Svizzera, molti professionisti nel campo dell’informazione si sono accorti della situazione precaria della credibilità del giornalismo solo dopo che la “nuova destra” ha iniziato a fare campagna contro i media tradizionali. Fino a quel momento, sia i giornalisti che i manager hanno ostinatamente ignorato quanto i ricercatori affermavano da decenni nei riguardi dell’insidioso deterioramento della fiducia riposta nella stampa.

Questo fenomeno è certamente legato a spostamenti di potere tra giornalismo, pubbliche relazioni e propaganda, ma anche alle echo chamber dei social media, in cui le stupidaggini diffondono più rapidamente e gli algoritmi e i cosiddetti “social bot” nutrono e intensificano questo stato delle cose. Nel mentre, le possibilità concrete di controbattere questo trend attraverso il fact-checking e “l’illuminismo” stanno diminuendo.

I campanelli d’allarme avrebbero dovuto suonare già negli anni ’60, quando le emittenti pubbliche tedesche Ard e Zdf avevano cominciato a monitorare regolarmente la situazione della fiducia nei media con uno studio longitudinale. Già allora i dati puntavano chiaramente verso il basso. Analogamente, la reputazione professionale dei giornalisti era ed è rimasta per decenni piuttosto negativa nei sondaggi. Guardandoci indietro, tutto ciò suona piuttosto strano: se molte redazioni sono esperte nella comunicazione dell’indignazione e sono abituate a fare di una mosca un elefante, queste hanno però anche collettivamente chiuso gli occhi di fronte a questi sviluppi pericolosi che minacciano ora sia l’esistenza delle redazioni stesse che quella delle società democratiche.

I ricercatori non solo avevano fornito dati allarmanti, ma avevano anche lavorato su un framework per analizzarli e interpretarli. Verso l’inizio del secolo, ad esempio, ben prima che Internet e la digitalizzazione sconvolgessero l’industria dei media, lo studioso di scienze sociali Georg Franck pubblicò un libro sull’economia dell’attenzione, illustrando come una maggiore concorrenza per l’attenzione pubblica tra istituzioni, compresi politici, Ceo, star sportive e altri Vip stesse cambiando profondamente la società. Il suo argomento era che il capitalismo materiale si stesse trasformando in un capitalismo “mentale”, con “tratti quasi buffi”. Franck aveva anche ipotizzato un secondo circuito economico che avrebbe progressivamente sostituito lo scambio tradizionale di beni e servizi con denaro, cui se ne sarebbe affiancato un altro dove informazioni e attenzione sarebbero stati protagonisti. Secondo lo studioso, in condizioni di crescente benessere economico e saturazione dei bisogni materiali, sempre più notizie e informazioni verrebbero scambiate in cambio di attenzione pubblica e visibilità.

Essendo l’attenzione pubblica notoriamente scarsa ed essendo possibile trasformarla in denaro o potere, vengono investiti sempre più soldi affinché quella attenzione possa essere generata ex novo. In questo modo si può spiegare almeno in modo plausibile come mai oggi negli Stati Uniti, statisticamente, per ogni giornalista ci siano cinque professionisti di pubbliche relazioni, mentre trent’anni fa, la proporzione era ancora circa 1 a1. Con il dominio e la professionalizzazione del settore delle Pr, il giornalismo “copia-incolla” si è diffuso rapidamente, indebolendo progressivamente la credibilità del giornalismo nel complesso.

Uwe Krüger (Università di Lipsia), nel suo premiato libro Mainstream, spiega come in queste circostanze i media tedeschi si siano conversi in un accordo apparente tra la Sinistra e i Verdi, e come alla fine persino i giornalisti vicini all’Unione Cristiano-Democratica (Cdu) di Angela Merkel si siano aggiunti a questo gregge. Stando allo studioso, molti giornalisti si trovano all’interno di reti elitarie. Per questo, il pubblico negli ultimi anni avrebbe accumulato una quantità notevole di frustrazione nei loro confronti. I media sembrerebbero quindi essere vpiù cagnolini da compagnia che cani da guardia del governo, e non più avvocati dei governati”, scrive Krüger, che aggiunge anche come “l’atteggiamento pedagogico-paternalistico” dei media verrebbe percepito dal pubblico come una forma di controllo.

Tuttavia, tutto ciò non spiega ancora come l’economia dell’attenzione si stia trasformando progressivamente in un’economia della disinformazione. Vi sono infatti altri requisiti che devono essere soddisfatti affinché per un numero considerevole di attori ottenere dell’attenzione con falsi, mezze verità e propaganda sia redditizio dal punto di vista economico o politico. Persino sul web i mass media tradizionali sono rimasti i leader tra i fornitori di notizie. Ciononostante, a causa degli effetti collaterali della rivoluzione digitale, i giornalisti hanno perso il loro ruolo di gatekeeper dominanti del discorso pubblico. La disponibilità del pubblico a pagare per le notizie è diminuita, e le entrate pubblicitarie che hanno finanziato le redazioni si sono ridotte rapidamente e, ora, riempiono prevalentemente i conti di Google e Facebook.

Tutto questo ha fatto sì che un crescente numero di spin doctor molto professionali, così come citizen journalists ingenui e i troll (tra cui non solo quelli umani, ma anche quelli artificiali, i cosiddetti social bot) possano inondare le offerte mediatiche con disinformazione preparate e mirate. Che si tratti esplicitamente di scie chimiche, di attacchi ai vaccini, di negare il cambiamento climatico, o di informazioni fornite nel contesto della campagna presidenziale statunitense, dell’occupazione della Crimea, dei fascisti in Ucraina, dell’Isis, o dell’abuso di tabacco, zucchero o droghe, in ogni caso circolano sul web valanghe di informazioni false, spesso riprese anche da testate prestigiose poco attente.

Gli algoritmi di Google e Facebook o i social bot attivi su Twitter contribuiscono a moltiplicare e distribuire le teorie del complotto, creando anche delle filter bubble in cui la disinformazione e le leggende urbane circolano all’interno dei social media. Un team di ricercatori italiani (tra cui Micaela Del Vicario, Fabiana Zollo e Water Quattrociocchi dell’Imt di Lucca) ha eseguito nel contesto di un progetto basato sui big data un’analisi comparativa di account Facebook in Italia e negli Stati Uniti, distinguendo tra profili che pubblicano informazioni serie (verificate da giornalisti professionisti o da studiosi) e account che invece che propagano stupidaggini. Il risultato è inquietante: a causa dei like e delle condivisioni da parte di utenti e social bot, i falsi si diffondono nelle filter bubble dei social molto più velocemente e coprendo aree molto più vaste di quanto possano fare le notizie fornite da fonti attendibili.

Quale sia il vero ruolo degli algoritmi all’interno del processo di diffusione è invece il segreto ben custodito dei giganti del web, che sono già cresciuti fino a diventare enormi organizzazioni mediatiche globali, ovviamente senza prendersi alcuna responsabilità editoriale per le stupidaggini che fanno circolare sulle loro piattaforme. Per questo, il professore di diritto americano Frank Pasquale (University of Maryland) sostiene che staremmo vivendo sempre di più in una “black box society” in cui gli algoritmi rimpiazzano i giornalisti in carne e ossa, mentre i social bot sostituiscono progressivamente i veri troll.

Il tedesco Simon Hegelich (TU Monaco di Baviera), politologo e esperto di tecnologie, ha invece presentato a una conferenza degli editori austriaci quanto sia facile partecipare in questo sistema: con 499 dollari, ha spiegato il ricercatore, si possono comprare 10mila account di Twitter, e anche affiancarli a dell’intelligenza artificiale non costa relativamente molto. Hegelich stima che una percentuale notevole degli utenti Twitter potrebbe già essere composta da bot, e la tendenza sembra aumentare. Facebook stima invece che vi siano circa 15 milioni di account-robot attivi al mondo. I social network si starebbero quindi trasformando in un terreno fertile per la propaganda, anche grazie al fatto che l’uso dei bot è praticamente privo di rischi e che sia molto difficile rintracciare i loro operatori.

Anche il successo di leader autoritari come Putin e Erdogan nello stabilizzare il loro potere può essere spiegato dal fatto che queste figure autoritarie si impadroniscono sempre di più anche dello spazio mediatico, controllandolo costantemente, intimidendo giornalisti, affidando le organizzazioni mediatiche alle mani di oligarchi amici e scavandosi una via nei social media. I giornalisti investigativi che cercano di smascherare i troll propagandisti del Cremlino, come Jessikka Aro in Finlandia, o il giornalista televisivo tedesco Heiko Seppelt, che ha invece analizzato in modo approfondito lo scandalo di doping russo, devono essere pronti ad affrontare bufere di volgari critiche online. Al momento, sembrerebbe che populisti come Donald Trump, Frauke Petry, lo svizzero Christoph Blocher stiano imitando Putin e Erdogan nelle società occidentali.

Infatti, spesso anche i giornalisti avversi vengono strumentalizzati dalla propaganda di destra, e gonfiano così ogni minima provocazione in una storia da prima pagina, quando in condizioni normali sarebbero a malapena una breve a pagina 56. A questo quadro si aggiunge anche che il team di ricercatori di Walter Quattrociocchi non lascia dubbio al fatto che, sino ad ora, ogni sforzo di contrastare l’inondazione di disinformazione con siti dedicati al fact checking o con chiarimenti da parte di media “seri” sia stato vano, dato che questi ultimi non riescono a uscire dalle loro filter bubble.

Fonti:

  • Uwe Krüger (2016): Mainstream. Warum wir den Medien nicht mehr trauen, München: C.H. Beck.
  • Micaela Del Vicario et al. (2015): The spreading of misinformation online, in: PNAS Vol. 113, No. 3, Jan. 19, 554-559.
  • Frank Pasquale (2015): The Black Box Society, Cambridge MS/London: Harvard University Press.
  • Fabiana Zollo et al. (2015): Debunking in a World of Tribes, in: arXiv: 1510.04267 vl v. 14. Oct.

Traduzione a cura di Georgia Ertz

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