La crisi dell’Europa è anche una crisi dei media europei?

28 Aprile 2014 • 10 anni di Ejo, Ricerca sui media • by

Se ci confrontiamo con la dura realtà, dobbiamo ammettere che non esiste una vera sfera pubblica europea o un giornalismo europeo comune. Di conseguenza, questo articolo rischierebbe di rimanere poco più che una serie di pagine bianche. Nell’era dei social media e dei blog, alcuni guru di Internet argomentano che la sfera pubblica europea può tranquillamente esistere, anche senza un giornalismo di stampo europeo. Alcuni profeti della digitalizzazione, dal canto loro, predicano già da anni come i cittadini potranno continuare a sviluppare la democrazia senza un giornalismo fatto da professionisti che selezionino, controllino, filtrino e indaghino le news per il proprio pubblico di lettori (per es. Jarvis 2013).

Tuttavia, gli studi empirici in questo campo non avvalorano questa tesi. Sebbene i citizen journalist possono registrare e postare sul web come testimoni oculari immagini di varie catastrofi sparse su tutto il globo, Twitter, Facebook e gli altri network sociali non hanno rimpiazzato i media mainstream, ma, al massimo, offrono ulteriori piattaforme che possono dare una maggiore e nuova risonanza ai reportage giornalistici.

Anche con l’affermazione di Internet come importante mezzo di comunicazione, la sfera pubblica è comunque ancora basata sul giornalismo e sono ancora i giornalisti a salvaguardare e a farsi da garanti della comunicazione pubblica. Quando figure come i whistleblower Edward Snowden o Chelsea Manning o il fondatore di WikiLeaks Julian Assange hanno voluto attrarre l’attenzione del mondo intero sulle loro battaglie, hanno avuto bisogno di una cassa di risonanza al di fuori del web e si sono rivolti ai giornali più autorevoli, al New York Times o al Washington Post negli Usa o in Europa al Guardian, a Der Spiegel, a Le Monde e a El Pais.

La crisi di fiducia nella Ue
La crisi di sfiducia in cui l’Unione Europea è progressivamente scivolata negli ultimi dieci anni (Petersen 2013) è stata probabilmente innescata anche dal coverage dei media mainstream. Coloro che non hanno ancora abbandonato il progetto di un’Europa unita dovrebbero per lo meno tentare di spiegare come e perché questo sia potuto accadere:

  • I governi dei paesi della Ue non hanno rispettato le leggi e gli accordi che loro stessi avevano sottoscritto (per esempio i criteri di Maastricht sullo sforamento del debito pubblico).
  • In metà dei paesi europei le finanze pubbliche sono andate ampiamente fuori controllo e un fondo europeo di salvataggio, che non ha delle basi finanziarie veramente solide, continua a mettere in pericolo la stabilità economica dell’Europa.
  • L’Unione Europea sta legiferando fin nei minimi dettagli sulla forma che debbano avere le banane e altri tipi di frutta e di verdura, ma questa mania di regolamentazione (“Regulierungswahn”, come definito in Enzensberger 2010) è totalmente deficitaria per quel che riguarda l’implementazione di veri principi democratici e delle regole legislative contro gli ormai evidenti abusi di potere.
  • Pratiche di corruzione di stampo mafioso si stanno allargando a macchia d’olio in tutta Europa e si sta assistendo a una progressiva “importazione di instabilità” invece che a “un’esportazione di stabilità” (Nonnenmacher 2005).
  • Oltre a tutto ciò, le regole professionali vengono infrante nel giornalismo e nel mercato dei media,  e, contestualmente, sta crescendo il potere dei cosiddetti baroni dei media, che abusano della loro posizione per interessi politici (Kus et al. 2013).

Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk (2013) ha sottolineato come tutto questo dia l’impressione di come il “progetto europeo” sia ormai prossimo al fallimento a causa di una cattiva gestione: “come comunità economica”, scrive a questo proposito Sloterdijk, “capace di generare prosperità per tutti i suoi paesi, l’Europa è al capolinea”. Ci sono due possibili risposte per riportare in vita il progetto. Una si appella al sistema politico, mentre l’altra auspica un miglioramento nel settore dei media e della cultura nel complesso.

  • Innanzitutto, il deficit democratico a livello europeo ha bisogno di essere drasticamente ridotto. I poteri (dei pezzi grossi) dell’amministrazione e della burocrazia stanno crescendo, mentre il controllo parlamentare e la partecipazione dei cittadini è inefficace.
  • In seconda istanza, un quarto potere ben funzionante, ovvero un giornalismo indipendente, informato e non di parte, non è sufficientemente rappresentato. All’Europa serve infatti un giornalismo che abbia le risorse necessarie da investire in indagini (Marconi 2011) e che accompagni il “progetto europeo” con un occhio benevolo ma, al contempo critico.

Questo primo tema è stato discusso ampiamente (Grimm 1992; Verheugen 2005; Wohlgemuth 2007; Enzensberger 2010; Schmidt 2010; Frey 2012; Neyer 2013), mentre il secondo, al contrario, finora ha ricevuto meno attenzione. Questo articolo cerca di sopperire a questa mancanza.

Un altro sintomo del fallimento del giornalismo
È difficile immaginarsi una capitale europea dove risiedano più giornalisti accreditati che Bruxelles (Marconi 2011) ma, nonostante ciò, il numero dei reporter in questa città è diminuito drasticamente (Castle 2010). Il numero di redazioni nella città belga è stato tagliato e i pochi giornalisti “combattenti solitari” non riescono a tener testa allo strapotere della burocrazia della Ue, alle fortissime lobby di professionisti e alle attività di propaganda delle public relations. Questo è purtroppo un ulteriore segnale del fallimento del giornalismo.

Anche nel caso in cui i corrispondenti da Bruxelles riuscissero a scoprire una storia importante e di interesse collettivo per la comunità, c’è un’alta probabilità che le redazioni principali dei paesi di origine, costantemente sotto pressione e ridotte all’osso in termini di personale, non riconoscano il valore della notizia arrivata dalla capitale dell’Ue. Come esempio portiamo un caso accaduto in Germania. Secondo una content analysis, realizzata da un ricercatore del settore (Petersen 2013), nell’autunno del 2009, quando il Trattato di Lisbona è entrato in vigore, Der Spiegel ha dedicato lo stesso numero di pagine alla riforma dell’Ue di quante ne abbia dedicate alle manovre economiche in Bielorussia e alla riforma della moneta in Corea del Nord.

A seguito della crisi finanziaria dell’Eurozona, sarebbe stato possibile cambiare le cose, invece è successo l’esatto opposto e la diffusione generale di notizie di stampo europeo nell’Ue è drammaticamente peggiorata. Le culture giornalistiche, che si erano sviluppate a livello continentale tra le diverse nazioni  sono state tutte messe in pericolo dalla de-professionalizzazione del settore e dalla crescente insicurezza tra i giornalisti per una possibile perdita del proprio posto di lavoro (Schnedler 2013).

Inoltre, quando le redazioni devono ridurre i loro budget, hanno la tendenza a colpire per primi i corrispondenti esteri. Bruxelles è più lontana della propria capitale o dal campanile della chiesa del proprio quartiere. Anche nel caso di eventi particolari o di contenuti specifici che riguardavano l’Unione Europea o i paesi europei confinanti, e che quindi avrebbero dovuto stimolare un interesse mediatico maggiore di quello normale, la copertura delle notizie non è di fatto aumentata. La crisi dell’Eurozona ha, al contrario, dato il via a una nuova ondata di nazionalismo in tutta Europa, stimolata dai peggiori stereotipi apparsi indistintamente su tutti i media, qualcosa che avremmo ritenuto impossibile solo pochi anni fa. Per esempio potremmo citare i soliti pregiudizi rispetto ai greci e agli italiani, considerati pigri e criminali, o, nei giornali dei paesi del sud Europa, le immagini della Cancelliera Angela Merkel rappresentata come un gerarca nazista.

Il fallimento dei rari tentativi di fondare dei media a livello europeo
I pochi tentativi di creare dei giornali a carattere europeo, che parlassero una lingua comune e non si occupassero solo degli affari interni delle singole nazioni, non hanno ottenuto i risultati sperati. The European fondato da Robert Maxwell, pubblicazioni come Lettre International e Le Monde Diplomatique, emittenti televisive come Euronews ed Eurosport non hanno riscosso una visibilità importante. I pochi giornali tradotti in diverse lingue e adattati ai lettori dei singoli paesi come Geo, Gala o Auto-Bild  da soli non sono riusciti a creare un settore pan-europeo dei media. Il mercato ristretto dei giornali che si rivolgono ad un pubblico internazionale in Europa, è dominato da testate americane come USA Today, il Wall Street Journal Europe e l’International Herald Tribune (Russ-Mohl 2003), ora rinominato International New York Times, con la sola eccezione del Guardian e del Financial Times.

Invece di aver costruito un giornalismo pan-europeo, siamo ancora rimasti nella sfera limitata dalle molteplici culture giornalistiche dei singoli paesi dell’Unione. Per meglio comprendere le differenze tra i sistemi mediatici delle varie nazioni del continente, basta leggere uno dei numerosi progetti comparativi di ricerca (come Sievert 1998; Hallin/Mancini 2005; Hanitzsch et al. 2010; Anagnostou et al. 2010; Fengler/Eberwein 2014, MediaAct, MediaMed e Worlds of Journalism) o dare un’occhiata alle graduatorie annuali sulla libertà di stampa (per esempio quella di Reporters Without Borders, 2014). In queste graduatorie, i paesi dell’Europa settentrionale e centrale sono sempre in testa: al primo posto troviamo la Finlandia, seguita al secondo dall’Olanda e al terzo dalla Norvegia, mentre le posizioni da fanalino di coda vengono occupate tradizionalmente dai paesi dell’Europa meridionale e orientale come l’ Italia al 49° posto, l’Ungheria, al 64°, la Grecia all’99° e la Bulgaria al 100°.  I progetti comparativi di ricerca mostrano inoltre come le altre possibili variabili, che servono a misurare la qualità dei sistemi mediatici e delle culture giornalistiche, oscillino fortemente da nazione a nazione.

Di conseguenza, il giornalismo in Europa varia in maniera impressionante da paese a paese e mantiene comunque un accento decisamente locale. Spesso, inoltre, le somiglianze si affermano all’interno della stessa regione linguistica, ma anche l’identità nazionale ha un impatto importante, come nel caso delle culture giornalistiche italiana e ticinese, o quelle tedesca, austriaca e svizzera che si differenziano notevolmente tra di loro. Quindi, creare un giornalismo europeo e di conseguenza ununica sfera pubblica europea potrebbe essere non solo un’impresa senza possibilità di successo, ma anche una mossa controproducente.

Una strategia per dei media pan-europei
Tutto quello che è stato detto qui, non significa però che le cose debbano rimanere così come sono. Al contrario, ogni strategia che voglia sostenere il “progetto europeo” deve iniziare avvalendosi degli esperti di comunicazione in Europa. Solo se i giornalisti e gli altri addetti ai lavori condivideranno un atteggiamento comune con una mentalità aperta a favore dell’Europa, il progetto pan-europeo potrà continuare a svilupparsi per i prossimi 50 anni. Anche se ciò potrebbe sembrare utopico, di fatto, in Europa abbiamo urgente bisogno dei seguenti presupposti:

  • Più giornalisti che vogliano guardare oltre i confini locali e nazionali, persone che parlino per lo meno 2 o 3 lingue europee e che si sentano a casa in due paesi europei, non solo in uno, e che si adoperino a ridurre i pregiudizi invece di rinforzare gli stereotipi.
  • Un numero maggiore di giornalisti che conoscono bene l’Unione Europea, in particolare la giungla della sua amministrazione a Bruxelles e le attività delle fortissime lobby che vi operano.
  • Standard minimi di professionalità condivisi, per esempio giornalisti formati al meglio che rispettino le regole etiche della professione, che combattano per la libertà di stampa e che siano perfettamente coscienti che la stessa libertà di stampa si basa sulla media accountability e su sistemi ben funzionanti di autocontrollo a lungo termine (Fengler et al. 2014).
  • Un coverage giornalistico più vivace sia sui giornali che su tutti gli altri media e che possa aiutare i professionisti dei media ad apprendere uno dall’altro, superando i confini linguistici e le barriere culturali.

Nella formazione dei giornalisti e nei programmi di aggiornamento ‘mid-career le barriere linguistiche spesso rendono difficile fornire ai giornalisti un’ottica diversa che vada oltre i propri confini nazionali. Comunque, grazie ai progetti Erasmus e altri tipi di scambi, la cooperazione internazionale tra alcune scuole di giornalismo sta migliorando. Un pensare “europeo” e comuni standard minimi di professionalità giornalistica a livello continentale, potrebbero essere sviluppati al meglio in ambienti istituzionali dove giovani giornalisti e ricercatori nel settore dei media possano trovarsi e scambiare le loro idee, oltre che a riflettere sulla loro professione e sul futuro dell’Europa. Qui di seguito alcuni esempi di luoghi qualificati a perseguire questi obiettivi:

  • I programmi accademici europei di fellowship per giornalisti, come quelli del Reuters Institute for the Study of Journalism della Oxford University o presso l’European Journalism Fellowships della Freie Universität di Berlino.
  • I corsi europei di training e aggiornamento mid-career (per esempio presso l’European Journalism Centre di Maastricht) e presso varie università europee – sebbene tali offerte rimangano delle gocce d’acqua nell’oceano. Tra l’altro, è triste constatare che università di stampo europeo come la Viadrina a Francoforte sull’Oder in Brandeburgo, o l’European University Institute di Firenze, non abbiano offerto programmi che si pongono come obiettivo il futuro del giornalismo. La situazione è comunque migliorata di recente con l’introduzione del progettoMedia Pluralism Monitor.
  • Negli ultimi anni, inoltre, il campo della ricerca comparativa sul giornalismo si è sviluppato in maniera significativa e potrebbe essere ulteriormente sostenuto, creando per esempio delle scuole dottorali europee interdisciplinari nella ricerca sui media.

Si potrebbe contestare che un tale programma sia fondamentalmente elitario. Infatti è innegabile che il sogno europeo sia sempre stato portato avanti e appoggiato solo da ristrette élite di persone. Il giornalismo in Europa, per lo più, è caduto in una spirale involutiva e iniziative di questo genere potrebbero invertire questa tendenza che lo condannerebbe invece a un sicuro declino. Una delle sfide della politica europea sarà quella di creare “infrastrutture”, ciò significa dar vita a iniziative e istituzioni in tutta Europa che rinforzino le basi della professione giornalistica, sotto forte pressione a causa delle crescenti difficoltà economiche. Perché si riesca a produrre questo tipo di effetto, l’Unione Europea dovrebbe imporsi la seguente regola: per ogni euro speso in propaganda o in pubbliche relazioni a favore della Ue  – incluse la manipolazione dei sondaggi (Kühn 2012) – vengano destinati almeno due euro a un fondo che finanzia queste infrastrutture. Tutto ciò aiuterebbe molto a migliorare la qualità del giornalismo e ridurrebbe a un livello accettabile la spesa europea a fini auto promozionali a carico dei contribuenti.

Purtroppo, sarebbe ingenuo aspettarsi troppo dalle istituzioni dell’Unione Europea. Senza l’impegno della società civile, senza il sostegno di fondazioni private, senza l’idealismo e la disponibilità al sacrificio degli opinion leader, come famosi giornalisti o ricercatori dei media, non avremmo alcuna chance di costruire una nuova Europa. Per concludere, abbiamo bisogno anche di creare reti che riescano a superare le barriere linguistiche e culturali.

Il ruolo determinante dell’Osservatorio Europeo di giornalismo
L’Osservatorio Europeo di giornalismo, di cui sono uno dei direttori, è un esempio di uno di questi progetti. L’Ejo aiuta giornalisti, manager dei media, accademici e varie altre persone interessate, a meglio orientarsi nel settore dei media, che sta cambiando rapidamente attraverso la sua digitalizzazione. L’Osservatorio si pone diversi obbiettivi, come il costruire ponti tra le differenti culture giornalistiche, specialmente in Europa e negli Stati Uniti, fungere da collegamento tra i ricercatori e i giornalisti, migliorare la qualità del giornalismo e stimolare una migliore comprensione dei media da parte del pubblico.

Il progetto è iniziato dieci anni fa presso Università della Svizzera Italiana di Lugano. L’Ejo è riuscito a creare in questo lasso di tempo un network di istituti partner in dieci lingue diverse e in tredici paesi europei, tra cui citiamo il Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford, l’Erich Brost Institute for International Journalism dell’Università di Dortmund, l’Università Turiba di Riga e l’Università di Tirana. Internet è diventata la piattaforma privilegiata per scambi di informazioni tra i professionisti del settore e l’Ejo si è sin dall’inizio proposta come una piattaforma online, con i propri siti, oltre ai propri account su Facebook, Google+ e Twitter. Il progetto dell’Osservatorio europeo di giornalismo non solo mette a disposizione e distribuisce i suoi articoli in dieci lingue, ma aggrega informazioni rilevanti e connette i suoi fruitori ad altre interessanti pagine web. I web editor di ognuna delle dieci lingue decidono in piena autonomia quali testi tradurre per i loro siti.

Il nostro obiettivo per il futuro è, da un lato, ampliare la piattaforma multilingue e, dall’altro, mettere a disposizione tutti i nuovi risultati o novità rilevanti scaturite dal lavoro dei numerosi ricercatori nel settore del giornalismo e dei media in generale. Ogni paese, sulla sua pagina web, si focalizza sulla propria cultura giornalistica, ma al contempo traduce testi dei siti partner, offrendo così ai propri lettori un panorama dello scenario mediatico europeo. L’Ejo è una delle piattaforme più economiche tra quelle che offrono gratuitamente ai giornalisti informazioni  significative e che incoraggiano gli addetti del settore a riflettere sulla loro professione. La funzione di archivio contribuisce inoltre a creare un risorsa che si affianca a prodotti, che offrono lo stesso tipo di servizio, ma che costano molto di più.

Ironicamente, la somma più cospicua a sostegno delle nostre attività viene messa a disposizione da un paese che neppure fa parte dell’Unione Europea. L’Europa, se volesse, potrebbe imparare molto a proposito di costruttiva cooperazione translinguistica dalla Svizzera. La fondazione per il Corriere del Ticino, il giornale a maggior tiratura di copie della Svizzera italiana, ha sempre sostenuto finanziariamente l’Osservatorio dalla sua fondazione nel 2004. Dal 2011 al 2013 il Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica ha messo a disposizione la somma iniziale per le pagine web di sei paesi dell’Europa dell’Est e continua a finanziare parzialmente le attività dell’Ejo in Svizzera. La fondazione Presse-Haus Nrz, la fondazione Robert Bosch ed altri fondazioni tedeschi sono tra i mecenati che sostengono il progetto. Ma esaminando l’insieme delle fonti di finanziamento, l’EJO è molto lontano da essere un’impresa veramente europea.

Creare un nuovo spazio europeo a disposizione del giornalismo
Comunque, la nostra iniziativa  è un primo passo per creare uno “spazio pubblico europeo” per il giornalismo e i media o per lo meno per i giornalisti, i manager dei media, i ricercatori, altri esperti e persino per la prossima generazione di professionisti in questo campo. Ci sono anche tenui speranze che le agenzie di finanziamento alla ricerca cambino la loro politica e creino maggiori incentivi per i ricercatori, che li spingano a collaborare sulla base di progetti di cooperazione simili al nostro.

Chiunque riceva fondi pubblici per progetti di ricerca dovrebbe essere obbligato a rendere accessibile al pubblico i risultati delle sue ricerche. Se un ricercatore inoltra una richiesta di finanziamento per un nuovo progetto, l’istituzione che mette a disposizione la somma dovrebbe accertare che i risultati delle precedenti ricerche svolte siano stati pubblicati per lo meno in  giornali autorevoli come il Guardian o il Frankfurter Allgemeine Zeitung o riviste professionali altrettanto rilevanti quanto le riviste scientifiche basate sul processo di peer reviewing, lette purtroppo solo da un piccolo gruppo di ricercatori del settore altamente specializzati.  Se per ricevere un finanziamento bisognasse soddisfare una tale condizione, si eviterebbe che i risultati di molte ricerche finiscano solo a prender polvere sugli scaffali delle biblioteche o spariscano in archivi web poco consultati, invece di essere resi pubblici e accessibili, producendo gli auspicati frutti per gli addetti ai lavori.

Solo grazie a queste attività non si riuscirà comunque a creare né un giornalismo europeo né una sfera pubblica univa veramente europea. Se però il network sviluppatosi grazie all’Osservatorio europeo di giornalismo continuerà a crescere e se le basi finanziarie potranno essere assicurate anche in futuro, l’Ejo potrebbe contribuire a migliorare la comunicazione tra gli addetti alla comunicazione di tutta Europa. Piattaforme simili potrebbero anche concorrere a un miglior utilizzo dei risultati delle ricerche in altri campi, per esempio nel divulgare maggiormente le best practice e implementare la messa a punto di standard professionali minimi che attraversino le barriere linguistiche.

In particolare, i social network offrono opportunità di comunicazione poco esplorate per le iniziative e le istituzioni europee. La comunicazione tra i giornalisti, come pure quella tra i ricercatori dei media e gli addetti al settore, potrebbe migliorare se si consolidasse un maggior scambio di informazioni. A lungo termine possiamo sperare di creare una “cultura giornalistica europea” diversificata e sfaccettata, che possa rivaleggiare e tener testa al miglior giornalismo americano.

Si preparano tempi difficili per l’Unione Europea e per il giornalismo, ma un avanzamento nella comunicazione multilinguistica e poliedrica tra giornalisti, ricercatori e altri opinion leader potrebbe contribuire a farci attraversare indenni le tempeste che si prospettano.

La bibliografia di questo articolo è disponibile qui.

Questo articolo è l’ultimo di una serie dedicata ai dieci anni dell’Osservatorio europeo di giornalismo. Gli altri, sono disponibili qui: 10 anni di Ejo.

Un versione precedente di questo articolo è stata pubblicata in Germania sulla r vista Gegenworte. Traduzione dall’originale tedesco a cura di Alessandra Filippi

Photo credit: Spyros Papaspyropoulos / Flickr Cc

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