I media mainstream non sono accountable e trasparenti

13 Maggio 2013 • Etica e Qualità • by

Non solo i recenti scandali in Gran Bretagna ma anche le analisi mediatiche fornite dei grandi editori come Tamedia e Ringier e la ricerca sui media lo confermano: editori e giornalisti hanno un problema ad accettare le critiche. Sebbene pretendano spiegazioni e trasparenza da tutti gli altri, sono loro i primi ad eludere i criteri di responsabilità e credibilità. Stephan Russ-Mohl, nell’ambito del suo Gutenberg Fellowship presso l’Università di Magonza, ha indagato da vicino le ragioni della questione.

Diamo per scontato che i media siano potenti, che nei sistemi democratici il potere necessita di controllo,  ma anche che la libertà di stampa sia una condizione imprescindibile al fine di informare i cittadini in maniera adeguata. Sullo sfondo dello scandalo delle intercettazioni telefoniche del News of the World, nel quale sono stati coinvolti i vassalli di Murdoch e soprattutto in considerazione delle manovre omertose, con le quali i boss della BBC hanno coperto per anni un moderatore televisivo pedofilo, comincia a delinearsi un concetto per il quale sia nella lingua tedesca che nella lingua italiana non è ancora stato coniato un termine appropriato. Nel mondo anglosassone in questi casi si parla di media accountability, cioè della “disponibilità dei media verso un’assunzione di responsabilità e verso una maggiore trasparenza”. Questa descrizione è la migliore che si possa dare e non è un segreto per nessuno che la media accountability lasci molto a desiderare.

Tre sono gli ambiti redazionali nei quali essere accountable (attendibilità e  responsabilità) è d’obbligo: in caso di eventuali errori nella copertura di una notizia, nella gestione di contestazioni o smentite e nel modo in cui i media riferiscono di se stessi e sul modo di fare giornalismo. Nella lingua anglosassone è più facile tenere a mente questo concetto grazie all’allitterazione. Si parla infatti delle tre “C”: corrections policies, complaints management e coverage of journalism.

Come partner svizzeri di un importante progetto finanziato dalla UE abbiamo analizzato, insieme ad altri undici gruppi di ricercatori di altri stati europei e di uno stato arabo per la durata di due anni, il livello di media accountability sulla scena internazionale (www.MediaACT.eu). Ne  è scaturito un manuale dove vengono riassunti esempi di best practice*. Ulteriori dati empirici e i risultati di vari sondaggi tra giornalisti sono in fase di valutazione. Ma si può già anticipare che i proprietari, il management dei media e i capiredattori dedicano poca attenzione alle “tre C”, talmente poca che vale la pena indagare i motivi di tale indifferenza.

Da un punto di vista esclusivamente economico i responsabili dei media avrebbero di primo acchito ogni ragione ad impegnarsi maggiormente in questo senso. Per prima cosa la media accountability costa ben poco. Pubblicare di propria iniziativa la rettifica di una notizia, data in precedenza ma rivelatasi errata, non è caro, certo che però presuppone in ogni caso molta attenzione da parte delle redazioni. Inoltre i costi di un Consiglio della stampa verrebbero suddivisi tra i partecipanti riducendoli a tal punto da poterli pagare con il fondo cassa. Gli incarichi come ombudsman dei media sono lavori a tempo parziale e si potrebbe addirittura pensare di affidarli a titolo onorario a personalità del settore che si offrissero volontariamente per la carica. Sono esclusivamente i giornalisti dei media a costar molto. Ma se esistesse la volontà politica di perseguire questo obbiettivo, i denari si riuscirebbero a trovare, per esempio si potrebbero suddividere diversamente le risorse redazionali disponibili al momento. Una possibilità sarebbe quella di ridurre gli articoli di politica e sport a favore di quelli sui media.

Inoltre si calcola che gli investimenti, per implementare una simile proposta, rimangano prevedibilmente modesti. Infatti non c’è polizza di assicurazione migliore di un ombudsman e di un Consiglio della stampa. Queste due istituzioni diminuiscono i rischi di notizie errate e i costi legati alle denuncie penali che ne derivano. Inoltre bisogna considerare il vantaggio che deriva da una comunicazione di successo, il legame con i lettori viene rafforzato e si contribuisce al contempo a migliorare la competenza dei giornalisti e del proprio pubblico di riferimento. La credibilità redazionale, oltre ad una presa di coscienza maggiore sull’importanza della qualità tra gli utenti dei media, dovrebbe tra l’altro avere un effetto positivo  sulla disponibilità a spendere di più per una migliore offerta giornalistica.

Per capire come mai il media management si giochi questa opportunità con tale leggerezza dobbiamo analizzare la questione ancora più da vicino. Nel mercato dei media occorre differenziare tra i segmenti di alta e bassa qualità. Se ci si rivolge ad un segmento di utenti con istruzione di basso livello, bisogna essere coscienti che costoro hanno una competenza dei media molto limitata. In inglese si è coniato il concetto di media literacy dei lettori. La loro capacità di spesa è limitata. I media, che si rivolgono a questo segmento di pubblico, sono finanziati per lo più attraverso la pubblicità. Nel segmento più acculturato si richiede all’utenza di partecipare con uno sforzo economico maggiore a causa della diminuzione delle entrate da parte degli inserzionisti. Il giornalismo serio di approfondimento riuscirà a rimanere sul mercato solo se aumenterà il numero dei lettori che apprezzano la qualità e giudicano importante l’autorevolezza e la credibilità giornalistica.

Alla luce di queste considerazioni va modificata la tesi di partenza. I responsabili dei media di alto livello agiscono ragionevolmente e nell’interesse della loro stessa impresa se investono maggiormente nella media accountability. Rimane aperta la domanda perché questo accada così raramente, ma ora ci arriviamo.

Innanzitutto sussiste un conflitto di interessi tra il tornaconto personale del manager stesso e il tornaconto dell’impresa per cui lavora. Per quanto sia vantaggiosa per l’impresa una maggiore trasparenza e credibilità, i responsabili alla guida dei media temono di essere messi alla berlina da eventuali Consigli della stampa, da possibili ombudsman o da altri specialisti dei media.

Poiché sanno perfettamente cosa fanno passare ai politici, alle persone ai vertici dell’economia o a varie personalità di spicco che finiscono vittima di uno scandalo mediatico, l’ultima cosa che desiderano è quella di diventare a loro volta vittime di uno scandalo.

I caporedattori e gli editori sono tra l’altro prigionieri di un dilemma insolubile. Un maggiore investimento nella media accountability paga solo se tutti i competitori, tra quelli del segmento alto, partecipano all’iniziativa. Si riuscirebbe così ad allargare a macchia d’olio la fascia di utenza consapevole dell’importanza della qualità, quella disposta a pagare di più. Il giornalismo dei media, quando si occupa di affari propri o della diretta concorrenza, si confronta con un problema di credibilità. Per questo sarebbe importante che molti, possibilmente tutti, i media con ambizioni di qualità riferissero in maniera onesta di giornalismo e dei media concorrenti.

Anche le rettifiche volontarie rientrano nel dilemma insolubile che attanaglia i media. Nessun giornalista ama essere sotto le luci della ribalta, tanto meno quando sussiste il pericolo che i colleghi pretendano pubblicamente  una correzione dell’errore. Per questo motivo i caporedattori, quando pretendono di colmare una lacuna di informazione, sono costretti ad esercitare una faticosa opera di convincimento all’interno delle stesse redazioni. Il più delle volte abbandonano l’impresa a causa delle resistenze troppo forti che incontrano.

I grandi agglomerati di media sono i primi a ostacolare la media accountability. La loro stessa potenza mediatica li induce semplicemente ad ignorare il dovere di essere accountable. Inoltre nei grandi gruppi industriali i gioielli di famiglia di segmento alto vengono spesso sovvenzionati grazie ai denari che entrano in cassa con i prodotti di bassa gamma. Gli interessi di tutto il gruppo hanno la precedenza sull’interesse della singola pubblicazione che, destinata al mercato di alto livello,  giustificherebbe lo sforzo maggiore di credibilità.

In ogni caso tutte queste argomentazioni razionali spiegano solo parzialmente il reale comportamento del media managament. Se si crede alle teorie dell’Economia del comportamento, ci riferiamo a Dan Ariely, i responsabili dei media incorrono in errori di valutazione che portano a “comportamenti irrazionali prevedibili in anticipo”.  Anche l’autore lucernese Rolf Dobelli, campione di vendite, ha descritto in maniera divertente questo fenomeno, riferendosi però al segmento dei manager solo in generale. **

Così per esempio, quando i caporedattori e i boss della casa editrice limitano il giornalismo dei media o impediscono l’intervento del Consiglio della stampa o dell’ombudsman, sono in gioco la percezione selettiva e le dissonanze cognitive. I loro timori di finire vittime di scandalismo hanno come conseguenza che alcune probabilità non vengano neppure considerate (neglect of probability). Solo pochissimi gerarchi sono potenti come Murdoch o Berlusconi, gli altri di fatto sopravvalutano troppo il rischio di diventare loro stessi bersaglio di scandalo di un giornalismo dei media funzionante.

A questo si aggiunga che i responsabili dei media, come d’altronde tutti noi, sono vittime del fascino delle “offerte gratuite”. Quando qualcosa non costa nulla tutti ci comportiamo in modo irrazionale. Lo dimostra il fatto che gli esperti di marketing riescono sempre a sedurci con le loro offerte gratuite e gli editori con i loro giornali gratuiti. Per lo stesso motivo il media management preferisce non investire nulla nella media accountability. I costi nascosti di questo, denominiamolo “costo zero”, si palesano solo più tardi, o come spese legali di costosi procedimenti, o come perdita di credibilità sul lungo termine che ha come conseguenza una minore disponibilità, peraltro difficilmente misurabile, del pubblico di specialisti dei media.

I caporedattori, che non vogliono interferenze da parte dei Consigli della stampa o dell’ombudsman, sopravvalutano inoltre le loro capacità di gestire in maniera adeguata errori, reclami e conflitti. Al contempo sottovalutano lo spreco di tempo che ne deriverebbe per loro. Nel gergo degli economisti del comportamento costoro cadrebbero vittime delle fiducia eccessiva in se stessi (effetto di overconfidence) e di contro-illusione. Capita talvolta che i dirigenti si isolino al vertice e siano preda della follia di riuscire ad avere tutto sotto controllo.

Non è da trascurare neppure “l’effetto gregge” all’opera anche tra i responsabili dei media. È questo “istinto gregario” che meglio spiega le differenze culturali tra i vari paesi del mondo occidentale rispetto alla gestione della media accountability. Negli Stati Uniti per esempio l’ampio margine di correzione e la presenza di un ombudsman fortemente istituzionalizzata è da ricondurre al New York Times, che serve da faro guida nel mondo anglosassone.

Sia in Italia sia nei paesi dell’Europa orientale e meridionale il poco interesse nei confronti della media accountability va considerato in un contesto più ampio. Là dove il sistema giuridico è marcescente, là dove pratiche mafiose si infiltrano nello stato e nell’economia, là dove non si avverte  né “un interesse pubblico” né “uno spazio pubblico”, non si può pretendere di trovare un media management che veda i vantaggi di una affidabilità mediatica.

I paesi di lingua tedesca si trovano in una posizione di mezzo. Non si intravede  un forte cheerleader che sostenga l’efficacia di un ombudsman o un Consiglio della stampa o di una presa di responsibilità  a pubblicare una rubrica delle correzioni. Però nei maggiori quotidiani indipendenti si vedono per le meno resti degli accenni di media accountability. In Svizzera nella SRF addirittura in misura maggiore che in Germania, dove i giganti ARD e ZDF sono segnati dall’arroganza del potere politico.

Grazie ai blog e ai social network, grazie alle possibilità derivanti dall’interattività e dalle interconnessioni, i media mainstream perdono davvero rapidamente la sovranità procedurale rispetto all’obbligo di affidabilità. Susanne Fengler, a capo del progetto di ricerca citato all’inizio di questo articolo, ha recentemente coniato e messo sul tavolo il concetto di “crowd-sourced media accountability”. La professoressa ritiene possibile che in internet, attraverso i blog e i social network si possa ottenere quella trasparenza dei media e del giornalismo, che la maggior parte dei media mainstream ci nega ancor oggi con irrazionale protervia. I media management farebbero quindi meglio a prendere sul serio la media accountabiliy prima che gli sfugga irrimediabilmente di mano.

* Klaus Bichler et al.: Best Practice Guidebook: Media Accountability and Transparency across Europe, Medienhaus Wien/Institute of Journalism and Communication of the University of Tartu, Estland/Erich Brost Institute, Dortmund, 2012

http://www.mediaact.eu/fileadmin/user_upload/Guidebook/guidebook.pdf

**Rolf Dobelli, Die Kunst des klaren Denkens sowie Die Kunst des klugen Handelns, München: Hanser 2011 und 2012

Pubblicato in: Neue Zürcher Zeitung, 07.05.2013

Traduzione dall’originale tedesco “Medien am Pranger” a cura di Alessandra Filippi