Il Corriere del Ticino, 17.5.2006
Parla Andrew Gowers già direttore di successo del prestigioso Financial Times
«La nostra missione è cambiata negli ultimi anni e continua a evolvere. Un tempo i giornali economici dovevano dare informazioni di base – fatti e cifre, eventi aziendali e annunci. Oggi i fatti e le cifre sono resi disponibili gratuitamente e immediatamente dai media elettronici. I giornali devono fare di più, dare un valore aggiunto: ottenendo informazioni che altri non hanno e soprattutto fornendo ai propri lettori il contesto, l’analisi e il commento di un evento economico» .
Andrew Gowers è uno dei più noti e stimati giornalisti economici al mondo. Abbigliamento elegante, very british, è il prototipo del giornalista di successo: dal 2001 fino a poche settimane fa ha diretto il Financial Times portandolo a ineguagliati successi di vendita su scala mondiale. Lunedì sera è stato ospite dell’Università della Svizzera italiana per un incontro con il pubblico luganese dal titolo « Le sfide del giornalismo economico nell’era della globalizzazione: è possibile informare correttamente? » organizzato dall’Osservatorio europeo di giornalismo in collaborazione con la Cornèr Banca di Lugano. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.
«La nostra missione è cambiata negli ultimi anni e continua a evolvere. Un tempo i giornali economici dovevano dare informazioni di base – fatti e cifre, eventi aziendali e annunci. Oggi i fatti e le cifre sono resi disponibili gratuitamente e immediatamente dai media elettronici. I giornali devono fare di più, dare un valore aggiunto: ottenendo informazioni che altri non hanno e soprattutto fornendo ai propri lettori il contesto, l’analisi e il commento di un evento economico» .
È possibile per un giornalista economico informare correttamente?
«Certo che è possibile, come si possono osservare e combattere le pressioni che un giornalista deve affrontare nel suo lavoro quotidiano. Le maggiori sfide sono senz’altro la crescente competizione e l’accelerazione dell’informazione. La pressione per stare al passo con i nuovi tempi dell’informazione è molto più grande di quanto non fosse anche solo 5 anni fa: il rischio è che questa accelerazione vada a scapito della qualità, dell’accuratezza e degli standard giornalistici che ormai da diversi anni cerchiamo di imporre nel nostro mestiere. Ci deve sempre essere un meccanismo di controllo interno alla redazione. Negli ultimi anni sono avvenuti gravi scandali, anche in media prestigiosi come ad esempio al ‘ New York Times’ con il caso Blair: si tratta di esempi di come alcuni giornalisti siano sfuggiti al necessario meccanismo di ‘ check and balances’ della redazione. I danni alla credibilità sono stati semplicemente enormi».
E quali sono le conseguenze di questi errori, soprattutto per un quotidiano economico?
«Il materiale che trattiamo è molto delicato: i mercati sono sensibili e dipendono molto dall’informazione. Una comunicazione fuorviante o errata può creare gravi danni economici. C’è il rischio che qualcuno possa perdere molti soldi o che altri ne possano guadagnare illecitamente. Le persone che leggono giornali come il ‘Financial Times’ o il ‘Wall Street Journal’ prendono decisioni che hanno conseguenze su enormi quantità di denaro e di conseguenza anche la nostra responsabilità è grande».
Il Financial Times vive a cavallo tra il mondo anglosassone ( americano e inglese), quello europeo continentale e l’Asia. Esprimere queste diverse culture pone problemi?
«Produciamo differenti edizioni per diversi mercati, ma il modello giornalistico resta lo stesso. Può capitare che in un contesto la rilevanza di una certa storia cambi e quindi spesso troviamo storie diverse in prima pagina. Ma non accadrà mai di leggere un articolo che dice una cosa in un’edizione e qualcos’altro in un’altra edizione».
C’è una « corporate culture » propria al Financial Times alla quale i giornalisti devono più o meno attenersi?
« Il giornale ha una forte cultura aziendale che si basa innanzi tutto sul principio dell’accuratezza dell’informazione. In secondo luogo teniamo sempre conto che stiamo scrivendo per un’audience estremamente sofisticata. Per ciò che concerne la cultura redazionale prevale una tipologia basata sul lavoro di gruppo. È un giornale che non ha mai tollerato le ‘ prime donne’. I giornalisti lavorano insieme su un tema e questo arricchisce il prodotto giornalistico » .
I giornali e le riviste di economia sono portati a difendere la classe finanziaria e imprenditoriale. Dell’economia fa parte a pieno titolo anche la forza lavoro che spesso viene però ignorata. Non c’è forse una carenza di sensibilità rispetto ai problemi dei lavoratori?
«Non credo che i problemi dei lavoratori siano ignorati. Il Financial Times ha sempre avuto un certo equilibrio ed è conosciuto per essere un quotidiano affidabile che non prende semplicemente le parti di uno o dell’altro, ma dà voce a tutti. Inoltre è sempre stato a favore della liberalizzazione dei mercati e per l’integrazione di paesi emergenti nell’economia globale. Ciò va a favore di paesi che sono appena entrati nel mercato globale, come ad esempio la Cina e l’India, e dà enormi benefici anche alla popolazione, non solo alle grandi aziende».
Successo aziendale, a che prezzo?
«Il successo deve essere sostenibile. Oggi come oggi occorre fare attenzione ai consumatori, ai dipendenti, al mondo circostante. Se si guarda agli ultimi 200 anni, le aziende che sono sopravvissute più a lungo e con maggior successo sono quelle che non hanno guardato al profitto nel breve periodo. Bisogna trovare un equilibrio».
Il Financial Times sostiene con forza una impostazione della globalizzazione di tipo anglosassone, ossia in cui di fatto questa globalizzazione deve esprimersi in un’apertura dei mercati ma non deve mettere in discussione l’egemonia dell’Occidente a livello internazionale. Ma non è questa una contraddizione dei termini poiché l’apertura dei mercati porta all’affermarsi di nove potenze come Cina e India e quindi alla riduzione del peso dell’Occidente nel mondo?
«Non credo che sia contraddittorio. Noi crediamo in un radicale allargamento del processo di globalizzazione nei quali i paesi emergenti raggiungono l’economia mondiale. Ciò porterebbe ad uno spostamento nell’equilibrio di potere, alla creazione di un mondo con molti poli di potere. Un mondo dove rimangono gli Stati Uniti e l’Europa, ma al quale si aggiungono altre potenze come ad esempio la Cina e l’India. Ciò che il quotidiano sta dicendo da tempo è che gli Stati Uniti devono cambiare orizzonti e essere consapevoli degli interessi anche degli altri invece di perseguire una sorta di via unilaterale, come quella che abbiamo visto prevalere nei primi tempi dell’amministrazione Bush».
La piazza finanziaria londinese si sta dimostrando estremamente solida. Anzi, in questi ultimi anni sembra essersi imposta ancor più quale numero uno tra le piazze finanziarie mondiali. Qual è la ricetta per tanta longevità e per il mantenimento della leadership?
«Credo che la solidità di Londra negli ultimi anni sia stata notevole. Se si guarda indietro di 5- 6 anni molti mettevano in dubbio che Londra potesse mantenere la sua leadership come piazza finanziaria internazionale. Si metteva in dubbio perfino la sua posizione in Europa, si credeva che con l’avvento dell’euro Francoforte potesse prevalere. Ora la questione non si pone più. Il segreto del suo successo? Un grande numero di fattori. Innanzitutto è una città vibrante, cosmopolita, piena di eventi culturali. Insomma: un buon posto dove vivere. Inoltre abbiamo un buon clima per gli investimenti, una legge sul lavoro liberale e un governo che prende atto dell’importanza della piazza finanziaria ed è quindi attento ai suoi bisogni. Il tutto accompagnato da una forte cornice di regolamentazioni finanziarie. Non da ultimo – ed è una cosa difficile sulla quale competere soprattutto per l’Asia e per i paesi al di là dell’Atlantico – è l’ottimale posizione di Londra in termini di fuso orario. Un ‘ trading-day’ inizia in Asia, continua in Europa e termina negli Stati Uniti. Londra ha accesso a tutte la parti di questo ciclo: così può tenere il polso del mercato finanziario globale» .
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IL PERSONAGGIO
Laureatosi all’Università di Cambridge, Andrew Gowers inizia la carriera giornalistica nel 1980 alla Reuters. Un anno dopo viene inviato come corrispondente a Bruxelles e nel 1982 a Zurigo. Nel 1983 viene assunto alla redazione esteri del Financial Times a Londra, di cui diventa caporedattore nel 1990. Nel 1994 viene nominato vicedirettore. Dal luglio 1997 guida per 15 mesi il giornale, sostituendo il direttore Richard Lambert trasferito a New York per lanciare la versione americana del Financial Times. Dal gennaio del 1999 Andrew Gowers è incaricato di lanciare la versione tedesca della testata, il Financial Times Deutschland , scaturito da una joint venture tra il «Financial Times Group» e «Gruner + Jahr» , uno dei maggiori editori tedeschi. Andrew Gowers è co-autore di una biografia di Yasser Arafat pubblicata nel 1990 e ripubblicata in versione aggiornata nel 2004. Sposato, ha due figli e vive Londra.