Giornalisti e studiosi della comunicazione potrebbero imparare molto gli uni dagli altri, ma continuano ad ignorarsi danneggiandosi vicendevolmente. In Germania non è diverso dagli Stati Uniti. I risultati di uno studio esplorativo.
Immaginate di rivolgervi al vostro medico di famiglia per dei dolori, e che questi prima ancora di iniziare la visita vi dica: «Considero la ricerca medico scientifica in ambito accademico irrilevante per l’esercizio della mia professione, per questo non leggo riviste specialistiche.» Onestamente, continuereste a riporre fiducia in lui?
Per contro, un vostro collega durante la riunione di redazione afferma che ciò che media e ricercatori di giornalismo realizzano nelle loro torri d’avorio non ha molto a che vedere con la pratica giornalistica anzi spesso dimostra la loro ignoranza in materia. E tutto sommato non ha torto: la maggior parte degli studiosi di scienze della comunicazione delle università tedesche probabilmente non ha mai scritto neanche un trafiletto. Ma è anche vero che molti giornalisti scrivono di temi scientifici o eventi musicali senza per questo disporre delle competenze necessarie.
Preoccupiamoci dunque di capire come mai tra l’ambito giornalistico e quello delle scienze della comunicazione non vi è rapporto e di indagare sulle attività dei ricercatori di scienze delle comunicazione nell’ambito dei media e sulla dinamica del trasferimento dei risultati scientifici all’ambito professionale e al pubblico.
Leoni Klump se ne è occupata nella sua tesi di laurea “I professori dei media ”(Die Medienprofessoren) scegliendo quei ricercatori dei media che in Germania occupano più assiduamente la scena mediatica (tra i quali non solo il curatore ma anche l’editore della rivista Message Michael Haller). Il risultato è pressoché scontato: le scienze dei media e della comunicazione hanno “un atteggiamento fortemente separatista nei confronti del pubblico dei mass media”. I ricercatori che diffondono e rendono accessibili i risultati delle loro ricerche permettendo ai giornalisti e persino ai profani di succhiarne il miele sono rari quanto le stelle cadenti. Ma anche la richiesta di informazioni e di conoscenze scientifiche che i giornalisti rivolgono all’ambito delle scienze della comunicazione è molto limitata.
Quali sono i motivi di questa situazione? È forse da ingenui supporre che i giornalisti potrebbero trarre insegnamenti utili per la loro professione se si aprissero alla realtà scientifica? E i ricercatori dei media e del giornalismo non sarebbero molto più gratificati se l’esito delle loro ricerche venisse accolto non solo da una ristretta cerchia di colleghi bensì anche dai giornalisti e dunque oggetto di discussioni pubbliche?
I media americani soffrono di una pressione maggiore
Per trovare le prime risposte a siffatte domande è parso utile guardarsi intorno per vedere se altrove le cose “funzionano” meglio: una volta di più è risultato naturale volgere lo sguardo verso gli USA, l’unico paese al mondo dotato di un paio di centinaia di corsi di laurea di giornalismo e di comunicazione di massa, così come di migliaia di ricercatori nell’ambito della comunicazione e di docenti di giornalismo. Contemporaneamente i “vecchi” media, in particolare giornali e televisione, in nessuna parte del mondo si trovano così in difficoltà come attualmente negli Stati Uniti, a tal punto da vedersi costretti a mobilitare ogni competenza scientifica disponibile per uscire dalla crisi. Dunque, in certe condizioni particolari il transfer scientifico funziona?
Un’indagine a cui hanno partecipato circa 30 esperti di media americani, ricercatori della comunicazione, docenti di giornalismo, manager editoriali, editori e giornalisti, fornisce i primi indizi (vedi il box “Metodologia scientifica”). La domanda della ricerca chiedeva quali giornali e quali ricercatori o progetti venivano considerati “innovativi” e quali istituti di ricerca si occupano in modo particolarmente intenso del transfer scientifico.
Grande scetticismo nei confronti della materia
Per una migliore comprensione ancora alcune precisazioni sulla posizione degli USA: anche qui gli studiosi di comunicazione non sono famosi per trasmettere attivamente i i risultati delle loro ricerche alla professione o per renderle pubbliche. D’altra parte anche il giornalismo dimostra poco interesse per le scienze della comunicazione e grande scetticismo nei confronti della materia.
Solo pochi giornali e riviste generaliste, fra cui il New York Times ed il Washington Post, trattano di giornalismo in modo assiduo, tuttavia si contano più riviste specialistiche e a più vasta tiratura le quali almeno occasionalmente prendono spunto da risultati di ricerca: l’
American Journalism Review (AJR) e la
Columbia Journalism Review (CJR) che come Message in Germania- recensiscono regolarmente e nel dettaglio libri appena pubblicati. Michael Schudson, uno dei più eminenti ricercatori americani in ambito giornalistico.
Rispetto alla Germania le Università americane vantano un maggiore sviluppo dei due indirizzi di studio tradizionali:il primo valorizza la formazione giornalistica a regola d’arte – presso college e università sono presenti molte journalism schools, i cui professori sono prevalentemente ex giornalisti o esperti della materia. Il secondo pone invece in rilievo le scienze empiriche delle comunicazione e la ricerca in ambito giornalistico e mediatico.
Negli ultimi anni le scuole di giornalismo sono diventate addirittura un bacino di raccolta: caporedattori e altri giornalisti di spicco che sono stati licenziati o hanno gettato la spugna per protesta contro i drastici tagli al personale popolano più che mai le università.
Proprio per questo è interessante chiedersi se questi professori – un tempo giornalisti – percepiscono le innovazioni del giornalismo e della ricerca in modo diverso dai loro colleghi studiosi da una parte e esperti dei media dall’altra ancora attivi nella professione.
Secondo l’economia dell’attenzione, abbiamo creduto che la percezione del fenomeno si concentrasse su quella manciata di personalità e di istituzioni che irrompono oltre la soglia dell’attenzione del pubblico del settore. Gran parte degli oggetti di ricerca di diverse migliaia di ricercatori in diverse centinaia di corsi di studio nell’ambito della comunicazione rimane infatti al di sotto di questa soglia anche nel caso in cui si tratti di ricerche rilevanti e innovative.
Poiché ognuno dei 30 intervistati aveva la possibilità di nominare 3 ricercatori innovativi, 3 istituti di ricerca e tre giornali, in totale si sarebbero potuti elencare 90 innovatori per categoria.
L’intervista dunque pone anche in evidenza se gli esperti dei media ritengono innovatori sempre gli stessi attori. A noi è sembrato plausibile considerare oltre la soglia di attenzione quei nomi fatti da almeno il 20% (= 6) degli intervistati.
Quelli nominati dal 10% (= 3) si accontentano comunque di essere riconosciuti e presi in considerazione. Noi siamo partiti dall’idea che solo pochi ricercatori, istituzioni e giornali avrebbero superato questa soglia.
I risultati sono stati una sorpresa. Contrariamente alle aspettative a nessun ricercatore o progetto è riuscito di “sfondare” la soglia di attenzione e dunque di essere nominato dal 20% degli intervistati. Se non altro due ricercatori sono rientrati nella seconda soglia del 10%: Tom Rosenstiel, responsabile del progetto di eccellenza di giornalismo (Project for Excellence in Journalism) ha portato a casa quattro nomine; Kathleen Hall Jamieson, esperta di comunicazione politica alla Annenberg School der Pennsylvania University è stata nominata da tre esperti dei media.
Il Poynter Institute è in testa
Molto più netto è stato il risultato ottenuto dalle istituzioni di ricerca e di transfer. Con un netto distacco di ben 13 nomine il Poynter Institute della Florida è entrato nella »Hall of Fame«. La struttura per i corsi di aggiornamento e formazione si occupa anche di ricerca sui media – per esempio il designer Mario Garcia presso il Poynter Institute ha condotto le sue analisi sul comportamento di lettura grazie ad apparecchi che ne monitorano l’andamento e i tempi. Il centro grazie ai suoi seminari e offerte online, come il il blog di Jim Romenesko, gode di un’ottima reputazione nell’ambito dei media.
Il secondo posto, con sei nomine è stato ottenuto dal progetto di eccellenza nel giornalismo della Pew Foundation (vedi Box di approfondimento).
Tra i giornali, due testate riescono a raggiungere la soglia di attenzione: il
St. Petersburg Times della Florida e il
Lawrence Journal World del Kansas (ognune sei nomine). Un riconoscimento di base come progetti di giornali innovativi lo hanno raggiunto il Bakersfield Californian(cinque nomine) e l’Oregonian di Portland (quattro nomine). È utile sottolineare che gli intervistati sono stati esortati a non nominare le grandi testate giornalistiche di qualità, vale a dire
New York Times,
Washington Post,
Los Angeles Times e
Wall Street Journal.
I media specializzati catturano l’attenzione
La nostra seconda ipotesi prevedeva che ci sarebbero stati degli effetti di aggregazione. I giornalisti e i docenti di giornalismo avrebbero una percezione simile della ricerca mentre gli studiosi della comunicazione avrebbero una percezione differente a seconda del loro soggetto di ricerca.
Ed è stata confermata.
In due punti si sono formate delle aggregazioni: il Poynter Institute come il Pew Center devono le loro posizioni in vetta alla classifica ai docenti di giornalismo e ai giornalisti. Come si spiegano questi fenomeni?
Con alta probabilità media specializzati come l’American Journalism Review, il Columbia Journalism Review, l’Editor & Publisher, ma anche blog come quello di Romenesko contribuiscono al fatto che istituti come il Poynter e il PEJ vengono percepiti in modo così forte. Ai media specializzati sarebbe da attribuire non solo l’effetto di aggregazione ma anche la triste realtà che gran parte degli altri lavori di ricerca godono di scarsissimo interesse e visibilità.
A questo si aggiunge una seconda spiegazione: a causa dei tagli nelle redazioni in America si ha sempre più la tendenza rispetto da noi a lanciare i contenuti mediatici attraverso gli uffici professionali di PR.
Poynter e PEJ dunque devono la loro visibilità non solo ai notevoli risultati di ricerca ma anche al loro eccellente lavoro di PR.
Box: Metodologia scientifica
Lo studio ha carattere unicamente esplorativo. I risultati dell’inchiesta non sono rappresentativi, essi si concentrano su un campione molto ridotto (n=30) che si suddivide in tre sottogruppi di dieci intervistati ciascuno: ricercatori nell’ambito della comunicazione, docenti di giornalismo ed esperti di media, fra cui un’alta percentuale di cinque giornalisti dei media.
Ad ogni intervistato è stato chiesto di:
– elencare tre ricercatori o progetti di ricerca (degli ultimi cinque anni, esterni al proprio istituto di ricerca) dei quali i giornalisti o i manager delle case editrici dovrebbero essere assolutamente a conoscenza;
– elencare tre istituti di ricerca che si propongono di gettare un ponte che unisca la ricerca sui media e i professionisti del giornalismo;
– elencare tre quotidiani che offrono un giornalismo di alta qualità in maniera apprezzabilmente innovativa;
In tutto – per e-mail o direttamente – sono stati contattati 60 esperti del settore. Il risultato – dopo molte insistenze – è che cira due terzi dei ricercatori e dei docenti universitari hanno fornito le loro risposte così come un terzo dei professionisti.
In questo caso bisogna riconoscere che la scarsa disponibilità a rispondere da parte dei professionisti è diventato un problema generale della ricerca empirica nell’ambito del giornalismo. Nel nostro caso specifico poi siamo incappati in un ostacolo particolare: molto probabilmente per alcuni degli intervistati è stato imbarazzante ammettere di non saper rispondere ad alcune domande.
Per esempio il redattore capo di un grande quotidiano regionale al secondo tentativo di intervista ha risposto: “Mi spiace non aver notato il vostro primo mail. Non sono sicuro di essere la persona adatta per rispondere alle vostre domande. A dire il vero non so se nel giornale ci sia qualcuno in grado di fornire delle risposte precise.”
Nel gruppo dei professionisti dei media, tuttavia, la grande percentuale di giornalisti ha sicuramente portato a delle distorsioni. In origine si prevedeva di intervistare separatamente tre gruppi di esperti : (1) editori, manager di case editrici e consulenti; (2) giornalisti e (3) giornalisti dei media e ombudsman dei media. Il lento ritorno delle risposte però non ha permesso di mantenere l’idea di partenza.
BOX: Istituti famosi e giornali innovativi: i migliori dell’indagine
Poynter Institute
Il centro (
http://www.poynter.org ) grazie ai suoi seminari e offerte online gode di un’ottima reputazione nell’ambiente dei media. È un centro di formazione e aggiornamento per chi è già giornalista e chi lo vuole diventare ma anche per i docenti della materia. Inoltre è un istituto di ricerca molto vicino alla realtà professionale.
Il Poynter Institute è stato fondato Nelson Poynter, l’editore del St. Petersburg Times. Egli ha lasciato il suo giornale all’istituto che copre le il suo lavoro con i ricavi della casa editrice. Poynter – più di altri – si sentiva responsabile di fornire un servizio pubblico così come di assicurare e migliorare la qualità giornalistica.
Da decenni ormai il suo giornale fa parte del gruppo di punta dei quotidiani regionali americani – posizione che ricopre anche all’interno della nostra classifica).
Particolarmente noto è il blog di Jim Romenesko – che in forma di newsletter alterna notizie serie a pettegolezzi spesso inserendo link che rimandano ad altri siti.
Romenesko è un “must” per tutti gli insider. “Mentre gran parte dei suoi lettori dormono ancora James Romenesko tutte le mattine si sveglia alle cinque e naviga in Rete come un pazzo”, così riporta il New York Times.
Project for Excellence in Journalism (PEJ)
Nel progetto di eccellenza del giornalismo (
http://www.journalism.org ) viene dato rilievo alla ricerca empirica. Soprattutto con la loro relazione
»The State of the News Media« (“Lo stato delle notizie die media”) dal 2004 i ricercatori ogni anno si rendono visibili e allertano sui trend insidiosi – come hanno fatto recentemente con le falsità della cronaca estera ma anche con i finanziamenti instabili del giornalismo di qualità dovuti alla migrazione della pubblicità e delle inserzioni sul web.
Dal 2006 il progetto viene promosso dal Pew Charitable Trust
di Washington. La fondazione – fondata su iniziativa dei figli e degli eredi del magnate del petrolio Joseph N. Pew – è politicamente indipendente e tra l’altro è impegnata nella consulenza politica e nel settore dei media. Grazie al loro intervento le attività di ricerca hanno ricevuto un notevole impulso. La fondazione in passato si era fatta conoscere come promotrice del
»Civic Journalism« (giornalismo civico)– dunque di iniziative che attraverso i media coinvolgevano i cittadini nella sfera della vita pubblica.
St. Petersburg Times / Lawrence Journal World
Entrambi i quotidiani balzano all’occhio per le offerte originali e interattive della loro versione online. Il St. Petersburg Times (di proprietà del Poynter Institute costituisce l’eccezione delle regole commerciali) sul suo sito http://www.tampabay.com offre diversi blog e da la possibilità a piccoli gruppi – per esempio alle mamme – di condividere informazioni ed esperienze su una apposita piattaforma. Il Lawrence Journal World (http://www2.ljworld.com )è notevolmente multimediale – o per usare un termine modaiolo in voga tra la stampa americana, »hyperlocal«.
Fonti: Leoni Klump, Die Medienprofessoren. Die Wissenschaftler der massenmedialen Öffentlichkeit – und ihr Verhältnis zur massenmedialen Öffentlichkeit, tesi di laurea, università di Münster 2008