Immaginare il giornalismo come un servizio, non come il mestiere di scrivere contenuti. Non come una definizione atta a delimitare un giardino o un orticello, ma come un’attività a servizio delle comunità, per la organizzazione della conoscenza. È quanto sostiene Jeff Jarvis nel suo più recente post, prendendo in analisi la vicenda NSA-Snowden-Greenwald che ha confermato una delle più radicali evoluzioni della professione in tempi recenti: chiunque può compiere un “atto di giornalismo”, che sia un professionista dell’informazione, un cittadino o un whistleblower.
Il problema, nel caso specifico, nasce dal dibattito su chi possa essere definito giornalista e quindi essere protetto dalla legge. Può essere un semplice cittadino? Un blogger? Un informatore?
Dall’analisi di Jarvis emergono differenti tendenze e punti di vista, come quello di Margaret Sullivan, Public Editor del New York Times che individua il giornalista come il watchdog per definizione, a quanto affermato, invece, dal senatore Dick Durbin che ritiene sia il legislatore a dover definire chi è (e chi non è) giornalista e chi, quindi, possa essere protetto dalla legge.
Ma la questione di fondo, per Jarvis, non è chi sia il giornalista, ma cosa sia il giornalismo. Giornalismo non è contenuto, non è una definizione. Non è una “scarsità” da controllare. Non deve essere un’ industria o una professione, né tantomeno la terra di appartenenza di una corporazione. Non è qualcosa che appartiene ormai esclusivamente alle redazioni o ad una forma narrativa.
Nella visione di Jeff Jarvis, il giornalismo è ora un processo partecipato il cui fine è offrire un servizio per la comunità per avere un pubblico informato. Non vi è e non vi può essere più definizione univoca di giornalista, anche di fronte alla necessità di identificare chi possa essere protetto, o meno, dalla legge.
La questione, nel contesto italico nostrano, non può non essere controversa laddove, il giornalista è rigidamente designato da un sistema legislativo e corporativo che trae le sue origini dallo statuto albertino.
Il dibattito in Italia è evidentemente distorto da fenomeni che nulla hanno a che vedere con la definizione semantica, funzionale, etica o deontologica di giornalista e da un sistema economico e lobbistico che si nutre di se stesso e volto alla conservazione della specie, nella sua forma preistorica originaria.
Tuttavia il giornalismo online pone in maniera forte, anche da noi, la necessità di andare oltre tutto questo e ritrovare un significato adeguato per le parole e per le definizioni.
Di recente, ad esempio, il Corecom della Toscana, in collaborazione l’Ordine e sindacato regionali, nel programma di attività per il 2013, si è posto in una ricerca l’obiettivo di “[…]tracciare un perimetro del campo dell’informazione e della comunicazione sul Web, anche attraverso un percorso definitorio essenziale alla comprensione del fenomeno […]”, obiettivo su cui Mario Tedeschini Lalli, da sempre attento alle tematiche del giornalismo digitale italiano, sul suo blog, ad esempio, criticamente osserva: “ho sostenuto l’intrinseca contraddizione tra la necessità tutta giuridico-aministrativa di ‘definire”’e ‘tracciare perimetri’ e la realtà dell’universo digitale che per sua natura disgrega contenitori, canali e strutture professionali e crea mondi ibridi.” Ed ancora “ I nostri sforzi analitici ed eventualmente definitori dovrebbero pertanto dedicarsi a identificare il giornalismo, o meglio quale parte del giornalismo attualmente prodotto da ‘giornali’ e ‘giornalisti’ senza il quale non può esistere cittadinanza informata. Quello che io chiamo ‘il giornalismo che conta’, una piccolissima percentuale del resto del giornalismo (anche buono e buonissimo) che è tuttavia fungibile, può essere cioè prodotto da soggetti e organizzazioni che col giornalismo non c’entrano nulla.”
Per il finale, torniamo oltreoceano con le parole di Jarvis: “Chi siamo, quindi? Siamo servitori di una società informata. Lo siamo sempre stati.”
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