Dopo la morte di George Floyd e la conquista delle piazze di molte città americane da parte del movimento Black Lives Matter, lo scorso venerdi 27 novembre, a Parigi, Michel Zecler, produttore discografico nero e proprietario della società Black Gold Studios, avvistato da una pattuglia di polizia senza mascherina all’esterno, è stato bloccato e picchiato dagli agenti mentre stava rientrando nel suo palazzo.
All’interno le videocamere di videosorveglianza hanno registrato il fatto violento: cinque lunghi minuti di calci e manganellate su Zecler che fa attenzione a non reagire. A questa “video-testimonianza” si aggiungono i filmati girati dai vicini del quartiere che mostrano altre scene di violenza dei poliziotti. Il filmato sul pestaggio è stato diffuso sul sito Loopsider, e visitato da milioni di utenti. ”Se non ci fossero state le immagini, ora sarei in carcere”, ha dichiarato il discografico davanti alle telecamere di tutte le tv nazionali francesi.
Il fatto qui riportato risulta particolarmente interessante in quanto coincide, prima di tutto, con l’attuale dibattito inerente la legge sulla “sicurezza globale”, approvata in Francia dall’Assemblea Nazionale, che punisce chi diffonde foto o video di poliziotti in azione con l’obiettivo di nuocere all’immagine delle forze dell’ordine. Secondo i sindacati la messa in rete delle azioni di polizia potrebbe “mettere in pericolo l’integrità fisica o psicologica degli agenti”.
Secondo punto, questa vicenda rievoca un’affermazione, forse sottovalutata e ormai dimenticata, del’ex capo dell’Fbi James Comey; parole che portarono ad un breve, ma pesante scontro politico con la Casa Bianca il 27 ottobre 2015. Infatti alla domanda del Presidente Obama sul perché i crimini fossero in costante aumento in quell’anno negli Stati Uniti, alludendo alla mancanza di responsabilità della polizia, l’ex-direttore del Federal Bureau dichiarò: “la colpa è soltanto dei media e delle continue indagini avviate nell’ultimo periodo sui poliziotti, in quanto hanno pubblicizzato e ridicolizzato le azioni delle stesse forze dell’ordine; quest’ultimi ora, si sentono insicuri nello svolgere i loro compiti, temono di ritrovarsi inaspettatamente su qualche video in rete giudicati da migliaia di utenti”.
Due elementi particolarmente importanti sembrano emergere. Il primo. Nell’era digitale ogni parte della realtà sociale, ogni parola o azione rischiano di mediatizzarsi e diventare oggetto di dibattito pubblico, di denuncia o di autocelebrazione negli spazi online. Sia che si tratti di violenza, sia che si tratti di giustizia, ogni cosa subisce le logiche della trasparenza e scopriamo come l’apparente “valore” positivo di quest’ultima, sotto l’apparente accessibilità della conoscenza, mostra il suo rovescio: la scomparsa della privacy.
Secondo. I flussi di informazione creano conseguenze opposte a quelle sperate. Ecco che la violenza della polizia, in alcuni casi, colpisce a causa del pregiudizio e viene giustamente denunciata, ma, allo stesso tempo, la sicurezza sociale rischia di venir meno perché lo stesso corpo di polizia si sente frenato nell’agire pubblicamente nelle strade, circondato da smartphone, teme che il suo lavoro possa essere “vetrinizzato”, messo in vetrina nei social network di tutto il mondo e travolto da commenti anonimi e violenti. Si rischia cosi di abbassare il livello reputazionale della polizia e di fiducia tra cittadini e istituzioni; e questo perché esiste una grande differenza tra “essere in pubblico” ed “essere pubblico”, tra “verità” e “trasparenza”.
Qui l’azione delle forze dell’ordine cede il passo alla pura messa in scena. Commenti, like, e giudizi in rete contribuiscono alla perdita di senso dell’informa-azione, non eliminando, ma accrescendo l’opacità, la nuova legge mira infatti a non riprendere l’azione degli agenti. L’obbligo continuo di esposizione nei media è in realtà una minaccia in realtà per l’ordine sociale e la sicurezza pubblica. L’ iper-comunicazione e la trasparenza del digitale hanno permesso anche di registrare e denunciare le azioni di alcuni poliziotti, ma ora entrambe appaiono come negatività da eliminare, perché tali ingiustizie più che essere rappresentate come problemi sociali-culturali, sono state esposte come merce e consumate nel mercato digitale. Al posto della dimensione pubblica, nell’arena mediale subentra la pubblicizzazione della persona, vittima o colpevole che sia.
A lungo andare nella società della trasparenza, suggerisce Chul-Han, giustizia sociale e fiducia tra individui vengono meno e portano alla definizione di uno stato di non-comunicazione, di non-sapere, dove tutto viene mostrato e commentato senza nessun senso critico, anche gli episodi di violenza. Occorre trovare il giusto equilibrio, anche comunicativo, tra trasparenza e sicurezza, prima che si ristabilisca uno stato di opacità, caratteristico dell’era pre-elettronica-digitale.
Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle degli autori e degli intervistati e non rispecchiano necessariamente quelle di tutto l’EJO
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